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Amelia Faraone, la prima sciantosa di Napoli

La Napoli post-unitaria non è più capitale. Vive la sua condizione periferica in una marginalità che la parola “capoluogo” non consola. Il pensiero di molti va certamente ai fasti di un tempo tanto recente da poter essere toccato, quando Napoli era al centro dell’Europa, ammirata, studiata, invidiata, odiata, dalle grandi potenze di Francia e Inghilterra. E’ in questo clima che si comincia a vagheggiare del ritorno ad una belle epoque scacciapensieri. E’ in questo clima che arrivano a Napoli le sciantose.

Un modello parigino, quello delle sciantose, come parigina è la derivazione della parola (chanteuses, cantanti). Il binomio donna-canzone a Napoli come in molti altri luoghi non prometteva mai nulla di buono. Un mondo che tentava di tornare a respirare aria internazionale, in realtà doveva ancora fare i conti con se stesso, e con i pregiudizi legati alla reputazione delle cantanti.

Appuntamento rimandato: non sarebbero state certo le sciantose a redimere le cantanti dalla fama di sfascia-famiglie. Eppure ci fu chi tra loro riuscì a ritagliarsi un posto nei desideri degli uomini, facendosi apprezzare per la professionalità dimostrata in carriera, per il garbo e la riservatezza, al netto di una carica di sensualità fuori dal comune. Questa sciantosa particolarissima si chiamava Amelia Faraone.

Prima di parlare di lei, scopriamo il contesto nel quale quel nome germogliò fino a diventare leggenda. Siamo nella Napoli di fine 800. A Roma hanno già inventato “a mossa” (Maria Campi). Lo spogliarello è stato appena sdoganato nel 1875, grazie alla sapiente ironia di chi ha saputo come nascondere la smania vojeuristica del pubblico maschile sotto il suono di una risata.

I maestri di questo benevolo inganno furono Luigi Stellato e Francesco Melber, che rivisitarono La cammesella, per creare un simpatico siparietto tra marito (impaziente) e moglie (pudica), con il primo che fa pressioni affinché la seconda si spogli, abito dopo abito, minacciandola di andarsene se non lo fa.

Si ride, si guarda, e si desidera. E’ la nuova formula del passatempo, che pochi anni più tardi diventa luogo. Nascono intorno agli anni ‘90 dell’800, i cafè chantant. Il primo cafè chantant d’Italia vede la luce proprio a Napoli, il 15 novembre del 1890. E’ il famoso Salone Margherita, che rimarrà punto di riferimento per gli altri cafè successivi.

In Francia era una realtà ormai ventennale, ma ancora fulgida nei suoi successi. Se pensate che il leggendario Moulin Rouge fu fondato solo un anno prima di Salone Margherita, nel 1889, vi rendete conto che l’importazione del cafè chantant a Napoli non giungeva affatto intempestiva sulle mode europee del tempo.

Nel locale nato in Galleria Umberto ci si divertiva ad emulare i francesi in tutto e per tutto. I camerieri parlavano un francese maccheronico, i menu riportavano pietanze dai nomi francesizzanti, le star che si esibivano in spettacolini divertenti, la maggior parte delle quali napoletane, erano conosciute come Blanche De Mercy, o Gabrielle Bressard.

Si trattava di donne bellissime, che accostavano ad un fortissimo ascendente sugli uomini, qualità artistiche più o meno pronunciate. Nel caso di Amelia Faraone, il canto. A dire il vero cominciò esibendosi per riscaldare il pubblico prima di artiste più quotate di lei. Ma non passò un anno che le scalzò tutte, nelle preferenze e nei desideri dello stesso pubblico.

Conquista il Salone Margherita, e comincia ad esibirsi in duetto con due dei più acclamati macchiettisti del tempo: Cantalamessa e Maldacea. Suonare, cantare, dialogare, inscenare anche solo un piccolo sketch con Amelia Faraone significa acquisire grande prestigio. Amelia calamita il pubblico col suo fare ingenuo e al contempo ammiccante.

I testi delle sue canzoni l’aiutano a crearsi un personaggio femminile dalle mille sfaccettature, tante quante erano le melodie che intonava, le storie che raccontava. “O cuntrattino” (di Ferdinando Russo), “Jett’o bbeleno”, “Voglio sisc”, “Lariul”, “Quanno chiove passe e fiche”, sono alcuni esempi. Ma non mancavano piccoli pezzi di teatro scritti apposta per lei. Le famose macchiette “Pozzo fa ‘o prevete?”, “A Signora lura”, ecc.

In una di queste pieces si parla di lei in questi termini: “Quann’è asciuta ‘a Faraona! Burro, burro, chella llà! Quant’è bbona! Quant’è bbona! M’ ’a vulesse cunfessà!”. Ogni canzone alimentava il suo mito, ogni macchietta la sua leggenda. Fino a quando gli uomini cominciarono a perdere seriamente la testa per lei.

Teste importanti, talaltro. Glissiamo sulla mole di poesie che le fecero pervenire scrittori e letterati dell’epoca, e concentriamoci sul più famoso dei suoi corteggiatori, Vittorio Emanuele, principe di Napoli. Giunto nella città partenopea per chiarire con il Maldacea alcuni sfotto’ che non erano proprio andati giù al numero due dei Savoia, lascia cadere i suoi intenti bellicosi non appena la vede per la prima volta.

Incantato o infuocato che fosse, non perde un attimo e la invita ad uscire. Ma la risposta di Amelia Faraone è di quelle che smontano i pezzi di un uomo senza ricomporli: “esco con un uomo solo se c’è pure mammà”. Col tempo Vittorio Emanuele venne a sapere che in realtà Amelia usciva, molto spesso, anche senza mammà, accompagnata da bellissimi giovanotti.

Al che la cosa cominciò a sfuggire di mano persino alla corona sabauda, incapace di riportare a giudizio il focoso rampollo, che sfidò a duello tutti gli spasimanti di Amelia, senza mai però affrontarli, visto che questioni di lignaggio gli impedivano di incrociare la spada con maschi di rango inferiore. Ad affrontare gli spasimanti di Amelia avrebbero dovuto essere i generali al servizio di Vittorio Emanuele.

Fortunatamente nessuno morì, nessun duello avvenne. E Amelia continuò a condurre la sua vita, tra esibizioni nei grandi teatri europei (ebbene si, uscì dai confini del cafè chantant e dell’Italia), e una vita privata che riuscì a mantenere tale, con grande attenzione, fino al ritiro dalle scene nel 1904. Fino alla sua morte, nel 1929.