Nel 1668 veniva ritrovato a Cuma un’antico busto di Giove. Le sue proporzioni erano tali da meritargli immediatamente l’appellativo di “Il Gigante”. La notizia si diffuse e ben presto arrivò alle orecchie dell’allora viceré Don Pedro Antonio d’Aragona. Come molti dei suoi predecessori, contemporanei, e sovrani posteri, anche Don Pedro subiva il fascino dell’arte, o per meglio dire, ne apprezzava la forza propagandistica.

E così decise che quel busto avrebbe dovuto essere trasportato a Napoli, nell’attuale Piazza Plebiscito, vicino alla residenza reale, issato su una base di puro marmo, ed esposta a gloria sua e della città. Ordinò altresì che al Gigante fossero ripristinate le braccia mancanti, il bacino e le gambe, in maniera da poterlo ammirare in tutta la sua maestosità, così com’era stato concepito dallo scultore originario.
Si hanno notizie della nuova collocazione del Gigante nel libro data 1818 “Il Forestiere alle Antichità e Curiosità Naturali di Pozzuoli”, in cui Pasquale Panvini ci suggerisce che la prima destinazione del Gigante era all’interno del tempio di Giove, a Cuma. Più prodighi di dettagli sono Carlo Celano e Giovanni Battista Chiarini, i quali affermano nel 1870 che la statua si trovava un tempo sulla via Gusmana, costeggiata da un lato dal palazzo del Principe di Salerno, e dall’altro dall’Arsenale d’Artiglieria.
La decisione del viceré Don Pedro Antonio d’Aragona di trasferire il Gigante proprio nei pressi della sua residenza, però, se da un lato donava lustro e prestigio alla sua figura (era infatti nelle intenzioni del sovrano l’identificazione nella possanza della statua), dall’altro rendeva il Giove un facile ed esposto bersaglio per chi voleva manifestare il proprio dissenso nei confronti di Don Pedro.
E a Napoli, di popolani insofferenti ai viceré, ce n’erano molti. Non passarono molti giorni da quando alcuni temerari cominciarono ad utilizzare il Gigante come destinazione delle proprie funzioni fisiologiche naturali. Per evitare il suo alter ego si trasformasse in un’artistica latrina all’aperto, Don Pedro ordinò che la statua venisse sorvegliata da uomini armati.
Non bastò. Gli uomini armati, ad un certo punto della notte, andavano a dormire. Ed era proprio quello il momento in cui i Napoletani insofferenti del giogo di corte sentivano urgentemente il bisogno d’andare in bagno. E chi potrebbe mai biasimarli, se volevano provare l’ebrezza aristocratica di utilizzare un sanitario in puro marmo?
Trovando alcuni più consono allo spessore artistico del monumento darsi all’arte della poesia, presero l’abitudine di affiggere nel marmo le proprie creazioni in rima. Le tematiche andavano dall’insulto esplicito al viceré, alle strofe più volgari. Satira, come tenerla a bada, proprio a Napoli? Impossibile. Se ne accorsero i successori di Don Pedro, che dopo la sua morte attraversarono le stesse vergogne.
Un assaggio di quanto i napoletani di un tempo amassero i propri regnanti? Alcune di quelle rime sono giunte fino a noi. Ve le riproponiamo così come le leggevano i viceré, quando, sollevati i reali corpi dai morbidi giacigli, si affacciavano ai balconi delle loro stanze: “Vuje pensate a fa le tasse, nuje pensammo a fa fracasse”, “Ve magnasteve i fecatielli, lo Rre se magna i casatielli”
Chi si dimostrò decisamente ostico al pubblico dileggio del rappresentante scultoreo dei viceré fu Luis Francisco di Cerda e Aragona. Il viceré ideò un sistema che a suo parere avrebbe messo fine a quell’insana abitudine di utilizzare il Gigante come bacheca del dissenso: una taglia di 8000 scudi d’oro sulla testa di chi s’improvvisava poeta a spese della corte.
8000 scudi d’oro significava per qualunque rappresentante del popolo sistemare a vita se stessi, la propria famiglia, e le 25 generazioni seguenti. E quindi il risultato? Nullo. La prima risposta del popolo fu un cartello che, facendo il verso al bando del viceré, prometteva 80000 scudi d’oro a chi avesse piantato la testa di Luis Francisco di Cerda e Aragona al centro di Piazza Mercato.
Fallito anche il tentativo di “corruzione” grazie alla solidarietà del popolo napoletano, il Giove di Cuma si ritrovò indifeso. Lui, gloria dell’antichità, re degli Dei, ridotto prima a fare da locandina a degli umani che si professavano regnanti, e poi a fare da vetrina a degli umani che si professavano napoletani, e ogni giorno di più dimostravano di esserlo fino al midollo.
Non fu per commiserazione della figura di Giove che Giuseppe Bonaparte, fratello di Napoleone, ordinò la rimozione della statua nel 1807. I napoletani non facevano differenze tra regnanti. Alla fine, chiunque si avvicendasse su quel trono, lasciava inalterata le condizioni di fame, disagio, povertà, con cui ogni giorno si confrontava il popolo.
E così, anche sotto il giogo francese, il popolo continuò a dileggiare i propri “amministratori” con inesauribile vena poetica, utilizzando il Gigante come megafono pubblico. Giuseppe Bonaparte, però, fu più sbrigativo. Via il dente, via il dolore. Ed il nostro povero Gigante finì nelle scuderie di Palazzo Reale.
L’addio alla sua secolare collocazione pubblica fu salutato dal popolo napoletano con una vena nostalgica che sicuramente avrà lasciato una profonda scalfitura nell’arido cuore napoleonico. La sera prima del trasloco fu affisso l’ultimo cartello, che recitava così: “Lascio la testa al Consiglio di Stato, le braccia ai Ministri, lo stomaco ai Ciambellani, le gambe ai Generali, e tutto il resto a Giuseppe”.
Una sorta di testamento, una disposizione delle ultime volontà del Gigante, prima di assistere impotente al perire definitivo degli antichi fasti tra i gradevoli olezzi dei cavalli reali. Qualcuno di voi nutre dei dubbi riguardo quale parte del corpo sia toccata al fortunato Giuseppe? Alla fine il Gigante, per bocca dei napoletani, ha trovato le forze per benedire chi ha disposto di lui in maniera così personale, per ben due secoli.
