Salì al primo piano dello stabile dove risiedeva la famiglia Giuliano a Forcella per farsi consegnare il corpo senza vita di uno dei nipoti del capostipite Pio Vittorio, deceduto nelle ore precedenti per overdose. Poi a capo della Criminalpol fu uno dei primi ad arrestare, nel 1989, Francesco Schiavone detto “Sandokan”, all’epoca aspirante boss del clan dei Casalesi.
Si sono celebrati in mattinata i funerali di Matteo Cinque, ex poliziotto venuto a mancare giovedì 3 gennaio nella sua abitazione di Vico Equense. Aveva 74 anni e nella sua carriera al servizio dello Stato lavorò in tutte le regioni (Campania, Sicilia e Calabria) dove la criminalità organizzata era ed è radicata ma in quegli anni metteva le basi per conquistare terreno in tutta la nazione.
Lavorò alla Questura di Napoli come capo della Squadra Mobile e come vicequestore nei commissariati della provincia (Torre Annunziata e Castellammare di Stabia). Poi come responsabile della Criminalpol di Campania e Molise e infine come questore di Trapani, Salerno, Palermo e Catanzaro.
Durante la sua carriera, Matteo Cinque venne anche accusato da un pentito di camorra, Pasquale Galasso, di aver favorito il clan Alfieri all’epoca in lotta prima contro la Nuova Camorra Organizzata di Raffaele Cutolo e poi contro i Nuvoletta di Marano e i Gionta di Torre Annunziata dove giunse come vicequestore dopo la strage di Sant’Alessandro del 1984, quando una vendetta delle famiglie Bardellino, Alfieri e Fabbrocino, ai danni del boss Valentino Gionta, provocò 8 morti.
A ricordarlo è l’attuale questore di Catanzaro Romolo Panico. “Ho conosciuto Matteo Cinque quando era capo della Squadra Mobile di Napoli e io dirigevo la sezione Volanti. Era una persona molto, molto in gamba. Sempre attaccato alla sigaretta, con quei suoi basettoni neri e il fisico forte, di lui ho il ricordo di un uomo molto attivo e impegnato nella battaglia contro la camorra“.
A ricordare Matteo Cinque è anche Luigi Giuliano, 46 anni, ex collaboratore di giustizia. Luigi è il figlio di Nunzio Giuliano, primogenito di Pio Vittorio, dissociatosi dalla camorra già negli anni ‘80 e ucciso in un agguato il 21 marzo 2005 in via Tasso mentre stava tornando a casa in scooter con la compagna dopo la spesa. Omicidio di cui, ad oggi, sono sconosciuti mandanti ed esecutori materiali.

L’episodio che vide protagonista l’allora capo della Squadra Mobile Matteo Cinque riguarda la morte del figlio di Nunzio Giuliano, Pio Vittorio.
“Era il 10 dicembre del 1987 – racconta Luigi Giuliano – e mio fratello Pio Vittorio venne ritrovato in condizioni disperate a casa di mia nonna materna in via Pietro Colletta. Faceva uso di eroina e dopo l’ennesima dose si sentì male. Aveva 17 anni, io 15. Lo portarono al vicino ospedale Ascalesi dove dopo poche ore morì”.
Fu allora che la famiglia Giuliano, numerosissima, si recò nel nosocomio di via Egiziaca a Forcella per prelevare il corpo di Pio Vittorio e portarlo a casa del patriarca per la veglia funebre.
“Dopo poche ore – spiega Giuliano – si presentò a casa di mio nonno, in via Giudecca Vecchia, Matteo Cinque, il capo della Squadra Mobile. Era da solo. Ricordo che io era seduto intorno al tavolo con mio padre Nunzio, mio nonno e altri miei parenti. Poi lasciammo parlare in una stanza per oltre mezz’ora Cinque, mio nonno e mio padre e quando uscirono venne dato l’ok per ridare indietro il copro di mio fratello per l’autopsia. All’epoca la mia famiglia controllava tutto il centro di Napoli e anche l’ospedale Ascalesi, quindi quando morì mio fratello fu quasi naturale andarlo a prendere in ospedale per riportarlo a casa nostra”.
Sulla vicenda c’è anche un racconto dello scrittore Bruno De Stafano riportato nel libro “101 storie di camorra”
Uno dei punti di forza della camorra è, notoriamente, il controllo del territorio. In alcuni quartieri di Napoli i clan presidiano strade, piazze e vicoli. Ma gli occhi e le orecchie che fanno da telecamere ed antenne non appartengono solo agli affiliati alle cosche. L’autorevolezza dei boss è tale che anche molte persone «perbene» sono disposte ad offrire il loro contributo per proteggere gli uomini e gli affari dei criminali. È un atteggiamento per certi versi comprensibile: anche se spara e uccide, la camorra difende, dà lavoro, risolve parecchi problemi che lo Stato non vede o non affronta. Nel quartiere di Forcella, ad esempio, per decenni il territorio è stato sotto il controllo della famiglia Giuliano, che ha avuto in Luigi, detto «’o rre», il suo capo indiscusso e in Pio Vittorio il suo patriarca. E nei confronti dei Giuliano la gente di Forcella ha sempre avuto una venerazione, e non ha esitato a schierarsi dalla loro parte. Uno degli episodi più significativi della devozione del quartiere si è manifestata quando quasi duecento persone hanno assaltato un ospedale per «rapire» il cadavere di Vittorio Giuliano, figlio di Nunzio, il più grande dei cinque rampolli di Pio Vittorio.
1987. Nel tardo pomeriggio del 10 dicembre, Vittorio Giuliano è a casa della nonna quando comincia sentirsi male. Da tempo fa uso di eroina, ma la robaccia che si è appena sparato nelle vene è tanta, troppa. Esce dal bagno barcollando, vomita anche l’anima, il corpo sembra attraversato da una scossa elettrica, ha gli occhi sbarrati. Poi si accascia. La nonna si accorge che non c’è un attimo da perdere, chiede aiuto e nel giro di pochi secondi arrivano gli amici di Vittorio che lo caricano in macchina e lo portano al pronto soccorso dell’ospedale «Ascalesi». Ai medici basta poco per capire cos’è accaduto e nel tentativo di salvarlo gli fanno quattro iniezioni di «Narcan», un farmaco utilizzato come «antidoto» dell’eroina. Tutto inutile. Vittorio entra in coma e qualche ora dopo il suo cuore smette di battere. Aveva solo 17 anni. È la prima volta che nella famiglia Giuliano la morte entra in maniera così prepotente, portandosi via un ragazzino. La notizia che il figlio di Nunzio è stato stroncato da un’overdose fa il giro dei vicoli in una manciata di minuti. Comincia così il pellegrinaggio verso la casa dei Giuliano per stare vicino ad una famiglia colpita da un lutto terribile. Ma mentre la processione è in corso, accade un episodio che rende l’idea di cosa vuol dire vivere in una città dove lo Stato è talvolta una presenza eterea.
Verso le 21 il pianterreno dell’ospedale «Ascalesi» viene invaso da quasi duecento persone: i poliziotti del drappello chiamano rinforzi, ma in quei momenti per fermare la folla inferocita non basterebbe un battaglione di soldati. Gli agenti fanno fatica a capire qual è la ragione di quell’irruzione di massa. Poi in mezzo alla fiumana di persone riconoscono volti noti: alcuni sono parenti dei Giuliano, altri ruotano attorno al clan. Quella gente non ha assaltato l’ospedale per andare a rendere omaggio al figlio di Nunzio, ma per portare la salma del ragazzo a casa dove sarà allestita una camera ardente. Sembra una missione impossibile, invece il blitz va a segno. Quattro familiari entrano nella camera mortuaria, si mettono in spalla il cadavere di Vittorio e, protetti dalla folla, lo caricano in una macchina che va via sgommando. È un episodio sconcertante: in una città in cui la camorra rapisce anche i morti, lo Stato dovrebbe solo chiudere bottega. All’incredibile protervia del clan più potente della città, le istituzioni reagiscono manifestando tutta la loro debolezza: non ci sarà alcun atto di forza, ma solo una mediazione con l’altro Stato. Il compito di mettere una pezza ad una situazione a dir poco incredibile, viene affidato al capo della Squadra mobile, il vicequestore Matteo Cinque. La polizia si è precipitata nell’appartamento di Nunzio Giuliano, in via Ascensione a Chiaia, ma il cadavere lì non c’era. Allora Cinque intuisce che la salma va cercata a casa del nonno, Pio Vittorio. Nella roccaforte del clan, in piazza Forcella 15, il vicequestore ci va da solo, senza uomini al seguito, senza la pistola nella fondina. L’unica arma che intende utilizzare è quella della persuasione. Il vicequestore, racconteranno le cronache, entra nell’abitazione del patriarca dei Giuliano e in una stanza trova la camera ardente. Vittorio è sul lettino, vestito di tutto punto. Attorno familiari e amici a vegliare. Cinque incrocia lo sguardo del padrone di casa, tra i due c’è cenno d’intesa, poi si appartano in un’altra stanza per parlare a quattr’occhi. Il capo della Mobile gli spiega che pur comprendendo il dolore, quello di rapire la salma è stato un gesto grave e che a questo punto Vittorio dev’essere restituito. Cinque chiede a Giuliano senior di essere ragionevole e di riflettere sul fatto che un eventuale braccio di ferro non sarebbe convenuto a nessuno. Il nonno del ragazzo apprezza la volontà di non creare disordini, comprende le parole del poliziotto e chiede solo un altro po’ di tempo per spiegare alla gente che è arrivato il momento di interrompere la veglia e convincerli a tornarsene a casa pacificamente. La polizia mortuaria arriva in piazza Forcella quasi un’ora dopo il faccia a faccia tra Cinque e Giuliano senior. Intorno alle 23 il corpo di Vittorio viene recuperato e trasportato all’obitorio del Primo Policlinico. Una delle pagine più imbarazzanti per lo Stato si chiude con una stretta di mano tra il patriarca dei Giuliano e il vicequestore. Alle esequie di Vittorio Giuliano parteciperanno quasi quattromila persone. Da quel giorno il padre del ragazzo si dissocerà dalla famiglia e comincerà una sua personale battaglia contro gli spacciatori di droga.
