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Edagardo Pistone arriva a Venezia con il corto Le mosche, una storia che si svincola dai classici stereotipi

Il giovane registra napoletano presenterà il suo ultimo cortometraggio alla Settimana delle Critica

E’ un grande traguardo che si realizza quello di Edgardo Pistone, giovane regista napoletano classe 1990. Con il suo cortometraggio Le mosche è in concorso alla Settimana della Critica di Venezia.

La passione di Edgardo Pistone per il cinema nasce al liceo artistico, passione che lo porta a intraprendere studi di Regia e Fotografia all’Accademia di Belle Arti di Napoli. E’ nel 2013 che con il suo cortometraggio Per un’ora d’amore compie il suo esordio nel mondo del cinema, partecipando a molti festival e ottenendo diversi premi. Nel 2019 ha collaborato come aiuto regista alla realizzazione di Selfie di Agostino Ferrante, presentato alla 76′ edizione della Biennale e vincitore del David di Donatello come miglior documentario del 2019. Finiti gli studi si è concentrato a tempo pieno nel suo lavoro con la scrittura di diversi cortometraggi e dedicandosi anche all’insegnamento. Edgardo collabora, infatti, con diverse associazioni cittadine che avvicinano i ragazzi dei quartieri periferici al mondo del cinema. Adesso è pronto a presentare il suo ultimo cortometraggio Le mosche su una delle più importanti passerelle mondiali del grande schermo.

Il corto è una storia di ragazzi di periferia che fluttuano come mosche, tra il loro moto perpetuo, talvolta fastidioso, e la capacità di auto-adattamento all’ambiente in cui vivono. E i giovani protagonisti de Le mosche trascorrono le loro giornate in questo modo, un po’ allo sbaraglio, alla scoperta di un tempo e di uno spazio in cui può accader loro qualsiasi cosa. Una storia di ragazzi narrata senza la ricerca “spietata” di un legame con un particolare tessuto sociale, rinnegando così ogni genere di categorizzazione, semplicemente adolescenti che esplorano il mondo in cui vivono con tutte le domande, le curiosità, gli istinti e le emozioni di quell’età.

Edgardo con Le mosche vuole allontanarsi dagli stereotipi di cui è colmo il mondo in cui viviamo, così, nonostante il suo cortometraggio sia girato a Napoli, si allontana dalla narrativa partenopea a cui, soprattutto negli ultimi tempi, fiction e cinema ci hanno abituati. Il risultato è un racconto in cui lasciarsi trasportare senza l’utilizzo di filtri e sovrastrutture, una totale immersione alla scoperta delle vicissitudini dei quattro protagonisti, della vita di quattro amici di cui è narrata la loro semplice quanto complessa essenza di ragazzi.

  Intervista ad Edgardo Pistone 

Come nasce “Le mosche”, quale storia racconti in questo cortometraggio?

Tutto nasce soprattutto dalla vanità. Su questo non c’è da girarci troppo attorno. Le ossessioni fanno il resto. Ora che sto perdendo i capelli dalla fronte ho nostalgia della libertà che ho avuto e che hanno gli adolescenti, sono goffi e dunque bellissimi. Non riescono a camminare perché inciampano e non cadono perché sono degli abili danzatori. La storia del film è autobiografica, racconta le vicende di quattro ragazzi persi nelle giornate e abbandonati a se stessi, e in totale libertà tutto può succedere. L’errore più comune è quello di parlare dei giovani associandoli all’oggi, alla politica e alla società, non tenendo conto di tutte le domande esistenziali e gli elementi poetici tipici dell’età. Questo è il cuore del racconto, per il resto delego alla visione del film.

Giovane e talentuoso con “Le mosche” sei in concorso alla Settimana della Critica di Venezia, come vivi quest’importante traguardo?

Ho 29 anni e non sono più giovanissimo e ti ringrazio del talentuoso. Vivo questo come l’inizio di tanti momenti belli facendo molta attenzione alla vanità di cui  ho parlato sopra. Però questi sono momenti gratificanti anche per restituire a tutti coloro che hanno collaborato al film e soprattutto a quelli che non credevano minimamente nel fatto che io potessi fare questo lavoro. Per domare l’ansia da prestazione provo a non pensarci troppo. L’unica cosa che veramente mi addolora è spiegare a mia madre che non sono diventato ricco e che con questo lavoro non si diventa famosi.

Cosa ti aspetti da quest’esperienza?

Quello che si aspetta mia madre, più o meno. Glorie e medaglie, ma soprattutto una pacca sulla spalla che anche se disonesta ti dà la forza di proseguire per questa strada bella quanto tortuosa. Se poi penso alle difficoltà delle persone mi sento sicuramente un privilegiato e quelli che vogliono fare questo lavoro se non avvertono questo privilegio non hanno capito niente.

“Le Mosche” si distacca dai classici luoghi comuni legati alla città di Napoli, impresa difficile, come pensi di essersi riuscito?

Sì. Il primo giorno di riunione con i capi reparto, la costumista mi si avvicina e mi dice: “Alla lettura della sceneggiatura io i personaggi li vedo molto trap/hip hop”. Con molto garbo le ho chiesto di mollare l’incarico, ho chiesto subito un cambio. (Non è stata licenziata, ha fatto altro in produzione). Era chiaro che quello era tutto quello che non avrei voluto fare. Per me era importante sospendere il racconto al di là delle mode, al di fuori del tempo. La sfida di tutti i film è proprio questa altrimenti si fa cronaca.
Il modo più appropriato di parlare di Napoli è dimenticarsi di Napoli, come un esiliato, ricordarla ogni tanto. E quando si palesa, bella, lontana e malinconica diventa come quelle donne insolenti che non si possono ignorare. Napoli si porta dietro anni di cronaca e di letteratura, liberarsi da questo non è facile, non so se ci sono riuscito, spetta a chi guarda decretarlo.

Sei impegnato anche con diverse associazioni in progetti educativi nelle periferie cittadine per insegnare ai giovani l’arte cinematografica, il cinema può essere occasione di riscatto per questi ragazzi? Qual è l’aspetto che più ti piace nell’insegnare il cinema?

Da bambino ero poco incline allo studio, incontrare ragazzi come me alla loro età un po’ mi terrorizza e nello stesso momento mi affascina moltissimo. Ho avuto molto calore dei professori che ho incontrato all’istituto d’arte quando fuggivo dalle lezioni di matematica per andare a fare quattro chiacchiere nell’aula del professore Astone, che all’epoca insegnava fotografia alle sezioni più fortunate, la mia non era tra queste. Un giorno chiesi alla professoressa di chimica di saltare la lezione altrimenti avrei reso impossibile il suo lavoro, lei acconsentì a questo patto e girovagando annoiato per i corridoi c’era la porta aperta dell’aula del professore Astone e stava facendo vedere ai suoi studenti un film tedesco bellissimo ed era “Il cielo sopra Berlino” di Wenders. Mi fermo sulla soglia della porta e il professore dopo avermi notato mi fa un cenno di entrare. Quello fu per me un gesto d’amore. Un amore incondizionato. Finita la proiezione mi disse “la settimana prossima vorrei rivedere “Il Monello” di Chaplin, vieni ti aspetto”. E’ stato un grande docente e un grande uomo. Difendeva i meno scolarizzati e sosteneva che i bocciati erano meglio dei promossi. Gli artisti hanno una propensione naturale per i più deboli.

Ora “Le mosche” alla Settimana della Critica di Venezia, quali invece i progetti futuri?

Sono pigro ma molto irrequieto, ho questa voglia di fare film che non riesco a domare. Sto sviluppando diversi (forse troppi) progetti con i miei amici produttori di “Anemone Film” Alessandro Elia e Walter De Majo, insieme allo sceneggiatore Ivan Ferone. Tre grandi talenti che si aggiungono al gruppo di lavoro di quando ho cominciato a muovermi in questo settore, Rosario Cammarota, Silvia Chella e Pasquale Di Sano. Con loro si parla poco e ci si diverte molto, una condizione necessaria per fare questo lavoro.

Quale messaggio vorresti che trasmettesse “Le mosche” a chi lo guarda?

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