Moltissime malattie infettive oggi facilmente curabili, fino ad un secolo fa erano causa di morte soprattutto per i bambini e gli anziani. Il merito dell’inversione di rotta è della penicillina, o meglio, di chi ne scoprì le applicazioni mediche. Fleming, staranno pensando in molti. E invece no. Non fu lui lo scopritore della penicillina. Trent’anni prima un molisano che studiava a Napoli e viveva ad Arzano, scoprì ciò per cui a Fleming diedero un Nobel. Il suo nome era Vincenzo Tiberio.

Come mai il suo nome suona così sconosciuto, nonostante la portata smisurata della sua scoperta? Le cause di questa ingiustizia storica e scientifica non sono del tutto note, anche a causa del carattere schivo e riservato dello studioso, ma si possono comunque azzardare una serie di ipotesi, alcune delle quali sostenute dai familiari di Vincenzo Tiberio, informati da chi gli era stato accanto in vita e aveva accolto le sue confidenze.
Cominciamo col dire che il potere antibatterico delle muffe era in realtà noto da tempi antichissimi. I Greci ed i Romani curavano le ferite ricoprendole di unguenti a base di muffe varie. Ma ancora prima, i Maya avevano scoperto il potere delle muffe di cereali contro le infezioni. In tempi ancora più remoti (parliamo del 2500 a.C.), gli straordinari medici cinesi conoscevano le proprietà curative della muffa di soia.
Ciò che oggi rende l’opera di Vincenzo Tiberio una perla scientifica, per quanto dimenticata, è il metodo che ha valorizzato la scoperta. Prima di descriverlo nel dettaglio, sarà bene però fornire qualche notizia in più riguardo questo silenzioso ricercatore dell’Università di Napoli, anche perchè, come vedremo, la sua biografia è parte essenziale della sua azione scientifica.
Vincenzo Tiberio nacque nel 1869 a Sepino, in Molise, da genitori benestanti che lo indirizzarono agli studi medici, assecondando la propensione naturale del figlio, sin da piccolo portato per lo studio ed interessato appassionatamente alle materie scientifiche. La migliore Facoltà di Medicina d’Italia, al tempo, restava quella dell’Università Federico II di Napoli.
Fu lì che Vincenzo Tiberio ultimò i suoi studi, grazie all’ospitalità degli zii che gli misero a disposizione la loro casa di Arzano. E fu proprio lì, ad Arzano, che Vincenzo cominciò a notare qualcosa che lo incuriosì. Ogni volta che gli zii ripulivano il pozzo della loro abitazione dalle muffe che col tempo si formavano all’interno, poco più tardi finivano per ammalarsi.
L’intuito di Vincenzo lo portò ad elaborare una semplice teoria: se ci si ammala bevendo le acque prive di muffa, ciò significa che quella muffa contiene sostanze protettive in grado di fungere da battericida contro quegli agenti patogeni che albergano numerosissimi nei nostri corpi. La sua intuizione era esatta. Le muffe del pozzo avevano un effetto positivo sulla salute di chi lì si abbeverava.
All’intuizione seguì una rigida sequenza di azioni scientifiche. Osservazione, verifica dell’ipotesi, isolamento delle sostanze antibiotiche, sperimentazione circa i loro effetti in vitro e in vivo, proposta operativa per l’utilizzo pratico. Tiberio non trascurò nulla: fasi, dosi, tempi, e riassunse tutto in un saggio, “Sugli estratti di alcune muffe”, pubblicato gli Annali di Igiene Sperimentale della Regia Università di Napoli. Era il 1895.
Tripudio da parte della comunità scientifica, onori, riconoscimenti? No, quanto piuttosto il nulla. O perlomeno qualche segnale che si fosse intrapresa una nuova strada, aprendo orizzonti inattesi e nuova linfa e fermento per la ricerca? No, silenzio assoluto, nessuna reazione, nessun cenno d’interesse. Trascorsi i cinque anni dalla pubblicazione, Tiberio gettò la spugna, e si arruolò in marina.
I suoi familiari affermano che la scelta fu dovuta a delle incomprensioni coi suoi superiori dell’Università di Napoli. Ma un ruolo non indifferente avrà giocato quell’inspiegabile silenzio della comunità scientifica di fronte alla scoperta potenzialmente epocale di Tiberio. Le proprietà antibiotiche della penicillina, la possibilità di curare ciò che finora produceva solo morte e sofferenza, sembravano non interessare né scienziati, né medici.
Lo sconforto causato da quel prolungato silenzio, l’amore per la cugina Amalia, lo stipendio irrisorio che gli si tributava in quanto ricercatore, la possibilità di far qualcosa per la patria, lo spinsero ad arruolarsi in marina intorno al 1890, abbandonando del tutto la carriera accademica, che aveva prodotto risultati tanto importanti quanto sottovalutati.
Fin qui si spiega il perchè Vincenzo abbandonò il mondo della ricerca. Ma perchè i suoi studi sulle muffe e sulla penicillina furono così trascurati? Una delle ragioni potrebbe essere la lingua. L’italiano non era lingua accademica nel mondo della scienza, e questo gli pregiudicò molta parte dell’interesse internazionale sulle sue scoperte.
Un’altra ragione di quel silenzio potrebbe risiedere nel fatto che la società scientifica non era pronta ad accogliere tesi così all’avanguardia. Se si pensa che 34 anni dopo Fleming giunse alle medesime conclusioni, e nonostante la risonanza sfociata nel Nobel, dovette aspettare più di dieci anni per riuscire a sintetizzare un farmaco su scala industriale.
E a proposito di Fleming. La “purezza” della sua scoperta, sostenuta anche dall’aneddotica che volle il caso alla base della sua intuizione scientifica, è stata messa fortemente in discussione da un’intervista rilasciata da uno dei suoi collaboratori più stretti. Ernst Chain dichiarò pubblicamente che Fleming era a conoscenza degli studi di Vincenzo Tiberio, ma non ne ha mai fatto cenno. Strano eh?
