Al di sotto della collina sulla quale i regnanti facevano edificare le proprie residenze estive, Poggio Reale, una enorme palude infestava la zona orientale della città di Napoli. Oggi di quella palude non vi è più traccia. In suo luogo sorge il Centro Direzionale, edificato proprio su quei putridi terreni, portatori spesso e volentieri di malattie ed epidemie di ogni tipo. Lì nei pressi fu realizzato il Cimitero delle 366 Fosse.
Sotto la collina che ospitò per secoli la Chiesa ed il Cimitero di Santa Maria del Pianto, all’interno del quale trovarono sepoltura gli appestati morti nell’epidemia del 1656, in un territorio utilizzato anticamente dai greci per una florida attività di estrazione del tufo, vide la luce il primo, serio, tentativo di razionalizzare la gestione dei cadaveri della città. Riconoscono questo primato anche alcune cronache risalenti ai primi anni dell’Unità d’Italia.
Così recitava l’editto reale con il quale si annunciavano gli inizi dei lavori il 4 Settembre del 1762: “Si dà principo alla costruzione di un camposanto in Napoli da contenere 366 fosse, una per giorno, in sovralunghezza di 238 piedi e di larghezza 254. Serve per uso degli ospedali, delle carceri, e dei poveri”. Un’idea, quella di seppellire i morti al di fuori delle mura della città, che anticipava di ben 42 anni il più famoso Editto Napoleonico di Saint-Cloud (1804).
E non solo. Assolutamente innovativa l’attenzione illuministica del re per le classi più disagiate, il tentativo di restringere la disparità di trattamento dei morti che volevano i nobili sepolti all’interno di chiese o monumenti, e i poveri gettati dove capitava. Questo progetto rappresentava l’ideale prosecuzione di una linea programmatica già palese con il Real Albergo dei Poveri, del quale il Cimitero delle 366 Fosse condivideva anche l’orientamento e le proporzioni.
Due anni dopo l’annuncio e la stesura del progetto da parte di Ferdinando Fuga, il Cimitero era pronto per metà. Era il 1764, e quell’idea si ritrovò improvvisamente soluzione di un’urgenza. Napoli, in quell’anno, era letteralmente sommersa di morti. La carestia prima, l’epidemia di febbri putride poi, provocarono 40000 morti. La maggior parte dei contadini confluiti in città nella ricerca di cibo e sostentamento, in seguito alla grave penuria dei raccolti, andarono ad accrescere la media dei morti giornalieri, fino al numero di 175 al giorno.
Di fronte a questa emergenza, due scuole di pensiero proponevano al re soluzioni opposte. La prima, facente capo alla Commissione Regia, proponeva di aggiungere nuove fosse comuni, individuando in particolare due zone della città nelle quali si sarebbero potute scavare due enormi voragini deputate all’accoglimento dei cadaveri.
Dall’altro lato c’era Ferdinando Fuga, il quale proponeva una soluzione ai tempi assolutamente inedita, i morti fuori dalla città, e le sepolture organizzate quotidianamente attraverso un sistema razionale che al contempo accontentava i morti (concedendo una collocazione post-mortem degna di un essere umano), e i vivi (allontanando pericolosi focolai di epidemia e contagio).
La spuntò infine Ferdinando Fuga, grazie alla stima e alla fiducia incondizionata che il re gli tributava. “Vuole il re che si segua il dettame dell’architetto Fuga, qual assicura che sono già sufficienti quelle che si trovano già posizionate nel detto campo santo, al numero di 200, e capace ognuna di più di centinaia di cadaveri, senza che vi sia la necessità di formarsi le ventilate due fosse nuove”.
Si parla di 200 fosse, perchè al tempo i lavori non erano stati ancora ultimati. Ma il progetto finale era di più ampio respiro. Internamente agli edifici che facevano da cornice al cimitero vero e proprio, l’architetto Fuga progettò una piazza quadrata, la cui pavimentazione consisteva in conci rettangolari di piperno, disposti diagonalmente.
All’interno di questo reticolo estetico trovavano posto 360 botole, disposte in file da 19×19. Se avete già provveduto a verificare la moltiplicazione, vi sarete resi conto che 19 x 19 fa 361. Ma al posto di quella botola mancante, sistemato al centro della piazza quadrata, vi era un alto lampione che illuminava l’intero Cimitero.
Ogni botola misura 80 centimetri per 80. In bassorilievo è scolpito un numero, internamente ad un cerchio. Quel numero indica il relativo giorno dell’anno. La numerazione delle botole procede in senso bustrofedico. Se ad esempio la prima fila di botole, dalla prima alla diciannovesima, procede da sinistra verso destra, la botola numero 20 si troverà al di sotto della 19, e sarà la prima della seconda fila di botole, numerate stavolta da destra verso sinistra.
Il numero di 360 non copre comunque i 365 giorni dell’anno. Le rimanenti sei botole (e non cinque, perchè vengono contemplati anche gli anni bisestili) si trovano all’interno degli edifici perimetrali, al coperto anziché a cielo aperto come le rimanenti 360. All’interno di ogni botola, 8 metri sotto la superficie, si apre una voragine cubica di 4.20 metri per lato.
Il sistema del Cimitero delle 366 Fosse era dunque semplice ed intuitivo. Se oggi è, ad esempio, il 245° giorno dell’anno, tutti i cittadini morti in questo giorno verranno seppelliti nella botola n° 245. I morti di domani verranno seppelliti nella botola n° 246. E così via. Se considerate che la media dei morti giornalieri era di 175, vi rendete conto della capienza reale di ognuna di quelle 366 botole, a prescindere dalle misurazioni sopra esposte.
Fino al 1875 i cadaveri venivano letteralmente lanciati all’interno delle botole. Ma si racconta che in quell’anno morì la figlia di una nobildonna inglese, la quale, inorridita all’idea che la sua piccola bambina potesse essere gettata come un sacco di carne all’interno della sua tomba, comprò un argano in ferro, e lo lasciò al cimitero, in modo che sua figlia ed i successivi morti venissero adagiati, con premura, nella loro dimora eterna. Quell’argano è ancora oggi visibile nel Cimitero delle 366 Fosse, in stato di avanzato arrugginimento.
La bontà del progetto di Fuga si manifesta, oltre che nelle intenzioni, nei numeri. Si parla di 700.000 corpi ospitati, ma la stima reale potrebbe superare il milione. Numeri creati nell’arco di soli 130 anni di onorata carriera, visto che il Cimitero delle 366 Fosse fu chiuso definitivamente nel 1890, e fondato, lo ricordiamo, nel 1764.
Nonostante l’evidente utilità per la salute pubblica, i nobili dell’epoca continuarono a chiedere insistentemente la chiusura di quel cimitero, che tanto pericolosamente avvicinava il confine del diritto dei poveri a quello dei privilegi dei ricchi. Le loro proteste rimasero fortunatamente inascoltate, altrimenti quel milione di morti avrebbe dovuto dividere il posto con altrettanti cadaverici colleghi di malasorte.