Voce di Napoli | Navigazione

Ponti Rossi: ecco perchè questa zona di Napoli si chiama così

Prima di svelare la toponomastica dei Ponti Rossi, una vasta zona di Napoli che comprende il Parco di Capodimonte fino ad arrivare a Piazza Grande, entrambe collegate da via Ponti Rossi, vorrei aprire una parentesi sul’importanza che, da sempre, l’acqua ha rivestito per questa zona considerata fin dalle origini un luogo fertile e per questo destinato all’agricoltura. Per questo bene così prezioso, l’acqua, furono costruiti, in epoca romana, numerosi acquedotti e quello destinato a soddisfare i bisogni idropotabili della città di Napoli e dintorni fu il canale del Serino che terminava nella meravigliosa e imponente Piscina Mirabilis.

L’opera acquedottistica, costruita dall’imperatore Claudio (Lugdunum, 1º agosto 10 a.C. – Roma, 13 ottobre 54) nel I secolo d. C., fu molto probabilmente opera iniziale dell’imperatore Augusto così da poter alimentare la sua flotta imperiale, insediatasi per suo stesso volere a Capo Miseno (classis misenensis). La struttura si snodava per oltre 100 chilometri, 140 chilometri per la precisione, e assicurava un adeguato apporto idrico a molte città della Campania Felix. Il canale del Serino, infatti, presentava due snodi principali: uno diretto a Benevento e l’altro verso Napoli.

Eppure, durante il suo lungo tragitto per raggiungere gli sbocchi principali, l’acquedotto del Serino riusciva anche ad alimentare numerose altre città e svariate villae come, ad esempio, Pompei ed Ercolano. Per gran parte del percorso l’acquedotto però non correva chiuso all’interno di gallerie ma all’aperto. Infatti i  numerosi archi costruiti con laterizi e tufo, dei quali resta ancora traccia a Napoli, soprattutto nella zona dei Ponti Rossi, ne testimoniano il passato splendore. Ed è proprio a questi archi di tufo rivestiti di mattoni rossi che si deve il nome di Ponti Rossi.

Purtroppo, dopo la caduta dell’impero romano, l’acquedotto andò completamente distrutto per volere di Belisario, il generale inviato dall’imperatore Giustiniano durante l’assedio di Napoli avvenuto del 536. Siamo in piena guerra gotica. L’impero bizantino e il regno ostrogoto si davano battaglia per il possesso dell’Italia. Belisario, all’epoca dei fatti tentò di convincere i napoletani a sottomettersi spontaneamente ma, quando si rese conto che i suoi tentativi cadevano nel nulla, decise di assediare la città, di saccheggiarla, ed infine, di distruggere l’acquedotto del Serino che, di fatto, smise in quel preciso istante di funzionare.

Nel Cinquecento il viceré spagnolo, Don Pedro di Toledo, un vero e proprio benefattore per la città di Napoli, volse nuovamente il suo sguardo all’acquedotto del Serino. L’uomo decise quindi di intervenire per riportare la struttura romana al suo antico splendore e affidò il gravoso incarico all’architetto Antonio Lettieri. Lo studioso per essere sicuro che il suo progetto di restauro fosse valido decise di risalire all’origine del corso d’acqua e quello che scoprì lo lasciò senza fiato. Durante l’epoca romana, infatti, l’acquedotto veniva ‘nutrito’ dalle sorgenti dell’Aquara, nella valle del Sabato.

L’acqua poi, grazie a dei canali sostenuti da ponti, veniva convogliata nel paese di Cesinali e nel villaggio di Contrada per poi giungere fino a Forino, Sanzara, Palma San Severino e Sarno. Dalla città di Palma l’acquedotto di Serino si divideva in due rami: uno in direzione di Nola e Pompei, mentre l’altro snodo andava da Pomigliano D’Arco a Casalnuovo. Ed era proprio quest’ultimo snodo a raggiungere, grazie a un percorso sotterraneo, Capodichino per sboccare poi nella cupa di Miano, conosciuta anche come la valle dei Ponti rossi. Da questo punto in poi le diverse arterie dell’acquedotto del Serino riuscivano ad abbracciare numerose zone del napoletano come, ad esempio, San Pietro a Majella, la grotta di Pozzuoli, Bagnoli, Posillipo per terminare, poi, nel grande serbatoio di Miseno.

Un simile acquedotto, alto cioè m. 2,10 e largo m. 0,82 per una lunghezza di 43 miglia fino a Napoli e 50 fino Baia, necessitava secondo l’architetto Lettieri di una spesa di due milioni di ducati per essere sottoposto ad un restauro che fosse degno di questo nome. Purtroppo il viceré spagnolo, Don Pedro di Toledo, ritenne la cifra troppo alta, e decise di non muoversi più in tal senso. La zona dei Ponti Rossi venne quindi lasciata in balia di se stessa fino al 1628 quando per opera dello scultore Cosimo Gonzago, l’anima barocca di Napoli, venne realizzato il monastero di Santa Maria dei Monti al quale fece seguito poi nel secolo successivo la costruzione di diversi insediamenti urbani.

Prima del boom edilizio che ha coinvolto la zona dei Ponti Rossi a partire dalla metà del Novecento, venne di nuovo riproposto il restauro dell’acquedotto, siamo nel 1846, esattamente tre secoli dopo l’intervento di Lettieri. Questa volta a farsi carico del progetto fu l’architetto Abate il quale costatò che la costruzione romana terminava non a Miseno come si era sempre creduto ma a Baia nella splendida e mastodontica Piscina Mirabile. Per dovere di cronaca ho ancora una piccola curiosità da svelarvi. Detta zona, infatti, non si è sempre chiamata Ponti Rossi. Durante il Medioevo veniva denominata “la vela”, poi prese il nome di “Campo dei nostri”, di “Archi di mattoni” e, solo alla fine, di “Ponti rossi” grazie al colore dei mattoni che rivestivano il famoso acquedotto del Serino.