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Dai domiciliari al carcere, il dramma di A. madre-detenuta: “Ha perso il bambino in cella”

Perde il figlio che portava in grembo poco dopo il suo ingresso in cella. A.L. e’ una donna rumena di 30 anni che e’ entrata nel carcere femminile di Pozzuoli (Napoli) a marzo 2019. Era incinta di quasi tre mesi. Il Gip di Santa Maria Capua Vetere aveva disposto per lei gli arresti domiciliari con braccialetto elettronico.

Ma, in seguito, gli atti sono passati a Napoli, per una questione di competenza territoriale, e il Pm ha chiesto la custodia cautelare in carcere, poi disposta dal Gip. A. ha raccontato la sua storia allo sportello di informazione legale di Antigone che ogni settimana incontra le detenute di Pozzuoli.

La trentenne ha spiegato di essere molto spaventata quando e’ entrata in carcere, anche perche’ non parlava bene l’italiano. “Ci ha raccontato della sua gravidanza a rischio e della paura di perdere la potesta’ genitoriale dei suoi 7 figli, di cui 4 erano gia’ in affido. Quando l’abbiamo conosciuta, A. – scrive Antigone nel report ‘Oltre il virus’ pubblicato oggi – presentava tutti i sintomi della cosiddetta “sindrome da ingresso in carcere”, che si manifesta sia con disturbi psichici che psicosomatici e compare tanto piu’ frequentemente e pesantemente quanto piu’ elevato e’ il grado di educazione, sensibilita’ e cultura del soggetto, costituendo uno dei momenti piu’ drammatici dell’esistenza”.

“Da un punto di vista sintomatologico la “sindrome da ingresso in carcere” presenta – spiega l’associazione – disturbi dispeptici (inappetenza, senso di peso gastrico, ecc.), morboso disgusto per tutti i cibi con conseguente impossibilita’ di alimentarsi (Sindrome di Gull), nonche’ violenti e persistenti spasmi esofagei che non permettono la prosecuzione del cibo lungo il canale digerente”.

A. ha raccontato di provare sensazioni gravi di soffocamento, fame d’aria, tachicardia e vertigini. Inoltre, da un punto di vista psicologico, presentava un forte stato d’ansia, agitazione psicomotoria, anedonia e disorientamento spazio-temporale. Dopo aver esplicitato i suoi problemi di salute all’amministrazione penitenziaria e dopo l’autorizzazione del Gip, e’ stata sottoposta a controlli all’ospedale La Schiana di Pozzuoli.

“Circa 10 giorni dopo – fa sapere Antigone – la ginecologa del carcere ha accertato la morte del feto, alla quale ha fatto seguito l’immediato trasferimento in ospedale, per il raschiamento. Si e’ sospettato che il feto fosse morto gia’ da qualche giorno”. Dopo poche ore dall’operazione A. e’ tornata nel penitenziario femminile, ma “non vi e’ stato alcun riconoscimento del suo lutto, nessun supporto specialistico”, denuncia l’associazione.

“All’inizio della carcerazione – scrive Antigone nel rapporto ‘Oltre il virus’ – i disturbi d’ansia possono manifestarsi come crisi d’ansia generalizzata. Se poi il disadattamento persiste, possono sopraggiungere attacchi di panico e claustrofobia. Nel carcere femminile di Pozzuoli ci e’ capitato spesso di riscontrare questi sintomi in donne che facevano per la prima volta ingresso in un istituto penitenziario. Molte tra le 181 persone attualmente detenute in quel carcere sono madri private della responsabilita’ genitoriale, in conseguenza di una pena accessoria o di una decisione emessa dal tribunale dei minori. Alcuni casi sono ancora piu’ tragici. Si pensi agli ingressi in carcere di donne in gravidanza, che a volte sono anche a rischio. Quali possibilita’ hanno queste persone di portare avanti la gravidanza in maniera sana? Quali conseguenze ha la detenzione per la diade?”.

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