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Franco Ricciardi, è sold-out il concerto al Maradona. La dedica commovente dell’artista: “Mio padre non è riuscito a vederlo”

Molto interessante e commovente l’intervista rilasciata da Franco Ricciardi a Il Corriere del Mezzogiorno. L’artista napoletano, partendo dal sold out del concerto che si terrà allo stadio Maradona di Napoli la prossima estate, si è raccontato parlando del suo passato, delle sue origini e dei suoi inizi musicali.

L’intervista

Il suo concerto al Maradona, il 10 giugno prossimo, è sold out sei mesi prima. Proprio come per i Coldplay.
«Il 2023 meglio non poteva iniziare! Partirò inoltre con il mio tour europeo e per la prima volta mi esibirò in America: a New York e Miami. Si avvera il sogno americano. Molti anni fa, mi feci tatuare le vele di Scampia e i grattacieli di New York: era un desiderio scritto sulla pelle. È come se quell’immagine si fosse staccata da me e avesse preso forma nella vita. Sui social già leggo commenti di fan italo-americani che ringraziano per le mie canzoni e aspettano con gioia i miei concerti. Che dire?».

Più emozionato per il Maradona o per i live in Usa?
«Fare sold out al San Paolo — io che ho vissuto Maradona, ancora non riesco a chiamare lo stadio di Napoli con il suo nome: è roba da posteri — non era nemmeno ipotizzabile. Andava oltre. Non l’ho tatuato perché impossibile pure da immaginare: non esageriamo, dicevo tra me e me. Quindi sono pieno di gratitudine per il mio pubblico e per la vita».

E come se lo spiega tutto questo successo?
«Ah, non me lo spiego, non ho tempo. I miei fan credono in me più di quanto non lo faccia io. Forse perché quello in cui credo corrisponde a quello in cui loro credono. La verità è che sono sempre stato costante: ho chinato la testa e sono andato per la mia strada in ogni circostanza. Guardo avanti, mai dietro né affianco. Anche se a 56 anni qualcosa potrei insegnarla, mi piace rimanere alunno, imparare perché, come diceva Eduardo: “Gli esami non finiscono mai”. Per fortuna sono un curioso e come suggeriva Steve Jobs anche coraggioso e un po’ folle. Il nuovo mi dà energia, fa muovere l’adrenalina».

Gli esami non finiscono mai, appunto. Più tremore per i concerti a Napoli o a New York?
«Nessun tremore veramente, ma non per spavalderia. La mia regola è affrontare tutto con leggerezza: se inizio a pensare all’importanza dell’evento, mi crolla addosso la pesantezza e non ne esco più. I due David sono stati leggerissimi, così voglio continuare a fare con il resto».

Il Ricciardi pensiero: desideri sì, attaccamenti no?
«Esatto, non mi focalizzo sulle aspettative perché, diciamolo, sono fortunato: cantare per me non è un lavoro ma vocazione e passione. Lo farei pure senza nulla in cambio: mi fa stare bene e amo il fatto che riesca a far stare meglio gli altri. Senza nulla a pretendere. È come chi va in chiesa solo per il bisogno di pregare non per chiedere il miracolo. Io non volevo il miracolo-successo, volevo “pregare”. Mi sono spiegato?».

Molto bene. Cantare, per lei, è un modo di stare al mondo.
«E per comunicare con gli altri. Non mi piace quando mi definiscono cantautore: sono un canta-popolo. Quello che esprimo lo leggo nella gente, sono uno di loro».

Primo ricordo.
«Sono nato a Secondigliano. E nella stessa camera da letto sono nati sia Francesco Liccardo (così all’anagrafe ndr ) che Franco Ricciardi. Per i 25 anni di matrimonio, infatti, i miei genitori fecero una festa in casa e poiché la stanza più grande era quella da letto si brindò lì: avevo dieci anni e chiesi di cantare Papà è Natale , un brano di Patrizio, cantante napoletano che negli anni Ottanta fu tra le prime vittime di droga. Sono molto legato alla grande cultura neomelodica che per me vuole dire ricerca di voci e del suono: non bisogna mai perdere la sonorità della lingua».

E dopo le nozze d’argento?
«Mia madre iniziò a essere mia complice. Mi portò da un insegnante di canto a San Giovanni a Teduccio, si chiamava Gennaro Esposito ovviamente. Andavo da una periferia all’altra prendendo due pullman. Cantavo ovunque, feste, matrimoni… poi il primo brano che ‘passò’ in radio: Mia cugina, lanciato da Gianni Simioli su Radio Kiss: lui sì che vide lungo, mi ha sempre incoraggiato. Dopo i David di Donatello, qualcuno mi ha chiesto perché non cantassi anche in italiano: e perché dovrei farlo? Il suono della lingua napoletana aderisce di più alle emozioni, è già musica».

Quando si accorse che stava facendo «il salto»?
«Non me ne sono ancora accorto: sono lo stesso che negli anni Ottanta andava tutti i giorni, dalle 12 alle 14, nella Galleria Principe Umberto perché era lì che gli impresari ti ingaggiavano per qualsiasi cosa: dai compleanni alle piazze. Partecipai, poi, al primo talent, Clap clap su Rai2, condotto da Barbara Boncompagni. Arrivai al secondo posto con il mio sound di rottura che fondeva classica napoletana con musica da discoteca: così, a 18 anni, arrivò il primo disco che mio padre non è riuscito a vedere…».

E ora è uscito l’ultimo: «Je». Cioè?
«Cioè “‘Io”, che non è egoismo, ma espressione di consapevolezza e maturità, senza mai perdere l’autoironia e la leggerezza».

Il suo sguardo sulla Napoli contemporanea.
«Finalmente la sua bellezza, la sua arte e i suoi talenti sono tornati al centro dell’attenzione. Napoli va e viene, esiste e resiste come una donna forte che crede nelle sue capacità. I social e i giovani hanno globalizzato la sua unicità fuori dagli stereotipi del passato. L’esempio del cambiamento è proprio Scampia, adesso sede di un’Università e piena di fermento creativo. Mio figlio che ha frequentato lì l’Istituto tecnico Galileo Ferraris e oggi studia Sound design a Londra. Napoli oggi consente di evolvere».