C’è un prima e un dopo la tragedia di Vermicino: per la gestione dei soccorsi, per la copertura mediatica di eventi drammatici, per il modo in cui, in quelle ore, la tv entrò stabilmente nelle case dei milioni di italiani sintonizzati, in apprensione, per le sordi di Alfredo Rampi, 6 anni, per tutti Alfredino, caduto in un pozzo artesiano il 10 giugno del 1981, a Vermicino, vicino Frascati.
Per tre giorni i soccorsi provarono a tirarlo fuori. L’allarme fu dato in serata: Alfredino dal pomeriggio si era allontanato dai genitori, Ferdinando e Franca, e non era rientrato. Il pozzo era stato scavato da poco in un terreno confinante ed era ricoperto da una pesante lastra. Un particolare che spinse, in un primo momento, a non credere che Alfredino ci fosse caduto. Fu un agente di polizia a ispezionarlo e a trovare il bambino. La macchina dei soccorsi si mise in moto, ma le operazioni si rivelarono subito molto complicate: il pozzo aveva un’apertura al di sotto del metro di diametro, per restringersi man mano che si scendeva e, secondo le stime, Alfredino era scivolato a 36 metri di profondità.
Insieme con i soccorsi, arrivarono le tv. La Rai seguì la vicenda con 18 ore di diretta. E quando si provò a interromperla, arrivarono le proteste degli italiani che erano rimasti incollati davanti ai teleschermi, in attesa di un lieto fine che, per Alfredino, non è mai arrivato. Nel pozzo fu calato un microfono per consentire ai soccorritori di parlare con il bambino che, fino a quel momento, era rimasto lucido. Tra i primi tentativi, fu calata una tavoletta di legno legata a delle corde: si bloccò. Divenne un ulteriore ostacolo per i soccorritori. Fu all’alba dell’11 giugno che arrivò una telefonata a Tullio Bernabei, caposquadra del soccorso speleologico del Lazio. Ventidueanni, Bernabei arrivò a Vermicino con la sua squadra.
La storia di Alfredo Rampi
A 40 anni da quel giorno, la ferita è ancora aperta: “Non riportatemi nel pozzo – dice a LaPresse – mi ritrovo in una condizione emotiva difficile. Sono 40 anni, ma è come se fosse successo ieri. Sì, parlai con lui, l’ho rassicurato”. La confusione di quei momenti “non facilitò le cose: c’era gente che arrivava fino al bordo del pozzo”. Bernabei si calò nel pozzo due volte, a testa in giù, dopo di lui si calarono anche Isidoro Mirabella, ribattezzato ‘l’uomo ragno’ e Maurizio Monteleone. “Mirabella, sappiamo oggi con la scienza del poi, che sarebbe riuscito a tagliare quella tavoletta – aggiunge – Ma fu fermato perché si riteneva essere pericoloso per Alfredino”.
Anche il presidente della Repubblica, Sandro Pertini, arrivò a Vermicino, dove si fece dare il microfono per parlare con Alfredino. Nel frattempo andavano avanti i tentativi di soccorso. Si fece spazio l’idea di realizzare un secondo pozzo, parallelo al primo, per cercare di arrivare ad Alfredino. Un altro volontario, Angelo Licheri, piccolo di statura e molto magro, si fece calare nel pozzo per tutti i 60 metri di profondità. Licheri iniziò la discesa poco dopo la mezzanotte fra il 12 ed il 13 giugno, riuscì ad avvicinarsi ad Alfredino, tentò di allacciargli l’imbracatura per tirarlo fuori, ma si aprì, tentò di prenderlo per le braccia, ma Alfredino scivolò ancora più in profondità e involontariamente gli spezzò anche il polso sinistro.
Licheri rimase a testa in giù 45 minuti, contro i 25 considerati soglia massima di sicurezza in quella posizione, ma dovette anch’egli tornare in superficie senza il bambino. Il 13 giugno, al terzo giorno, non arrivavano più segni di vita di Alfredino. Il suo corpo fu recuperato da tre squadre di minatori, 28 giorni dopo la sua morte.