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Colpo alle banche, la sentenza che fa gioire i correntisti: i complimenti per il Dott. Ragozzini

Dirompente e di grande interesse la sentenza in commento che ha messo in discussione gli accordi pattizi relativi alle clausole di legittimazione dell’anatocismo nei rapporti di cc bancario individuandoli non come usi normativi ma come usi negoziali e in quanto tali assunti contra legem in violazione del disposto di cui all’art. 1283 cc. La vicenda nasce da un giudizio introdotto da una società correntista che contestava all’istituto bancario varie irregolarità e, in particolare, l’applicazione di tassi usurari, di commissioni di massimo scoperto illegittime perché indeterminate e, non da ultima, l’illegittima applicazione di interessi anatocistici.

Proprio sull’anatocismo la società ha contestato, in buona sostanza, la violazione dell’art. 1283 cc poiché ha ritenuto che la regolamentazione contrattuale che prevede l’applicazione della clausola anatocistica fosse riconducibile ad un mero uso negoziale non in grado di derogare alla norma codistica che prevede il divieto dell’anatocismo, salvo uso contrario da intendersi, attenzione, come uso normativo.

Il Giudice ha accolto la tesi di parte attrice sviluppando un’articolata ed attenta analisi esegetica della fonte normativa e ritenendo che la deroga al divieto di anatocismo, cui essa fa riferimento, è da intendersi limitata al caso degli usi normativi collocabili temporalmente prima dell’introduzione nell’ordinamento dell’art. 1283 cc (entrato in vigore nel 1942) e che l’unica pattuizione ammessa, proprio dall’art. 1283 cc, è quella che le parti possono porre in essere successivamente alla scadenza di interessi dovuti da almeno sei mesi o dalla domanda giudiziale.

Da tanto, Il Giudice, ha dedotto che le convenzioni formatesi nel tempo, con la prassi imposta dalle Banche di predisporre contratti in cui fosse consentita la capitalizzazione degli interessi, non fossero “convenzioni o usi normativi” ma semplicemente “usi negoziali” perché derivanti non dalla convinzione generalizzata che si trattasse di una regola di diritto ma banalmente di una mera prassi contrattuale imposta dalle Banche. In conclusione il Tribunale di Napoli ha ritenuto che gli accordi contrattuali derogatori dell’art. 1283 cc siano tutti assunti contra legem.

Di seguito, i principali aspetti della motivazione. La sentenza in commento, come detto, parte dal dato codicistico dell’art. 1283 cc che così recita: “in mancanza di usi contrari, gli interessi scaduti possono produrre interessi solo dal giorno della domanda giudiziale o per effetto di convenzione posteriore alla loro scadenza, e sempre che si tratti di interessi dovuti almeno per sei mesi”.

La norma in questione è norma imperativa, introdotta proprio per limitare l’uso, voluto fortemente dalle Banche, del fenomeno conosciuto come anatocismo (interessi che diventano capitale e generano a loro volta interessi), meccanismo diabolico moltiplicatore di guadagni illegittimi di cui gli Istituti di Credito da sempre non hanno potuto fare a meno e che generano disvalore sociale.

Proprio per porre un freno a questa prassi, il legislatore nel 1942 ha introdotto una norma di carattere imperativo che in sé contiene una condizione derogatoria rinvenibile, a parere del Giudice, in quegli usi che si sarebbero potuti formare solo precedentemente all’introduzione della norma per essere considerati usi normativi. Infatti, prima del 1942 non c’era una norma ad hoc che prevedesse il divieto di anatocismo: vi erano solo prassi in uso che ne prevedevano l’applicazione ai rapporti in concreto.

Va detto, che una prassi convenzionale ripetuta nel tempo ma assunta in violazione della norma resta pur sempre una convenzione contra legem e, quindi, di fatto nulla.
Infatti, solo gli usi normativi possono ingenerare la convinzione che il ripetersi di una condotta nel tempo sia conforme alla norma. A parere del Tribunale di Napoli e più precisamente del dottor Ragozzini, gli usi contrari di cui parla l’articolo 1283 cc sono solo quelli insorti precedentemente all’introduzione della norma. Tutti quelli successivi sono solo usi creati su imposizione della Banca e privi del carattere derogatorio cui fa riferimento il dato normativo.

Che si tratti di usi normativi e non convenzionali, dice il Giudice, è palese anche dal tenore della norma stessa, se messa a confronto con tutte quelle altre che pure prevedono il richiamo ad usi e patti contrari. La prova del nove sta nel fatto che anche gli artt.1283,1457,1510,1528,1665,1739,1756,2148 c.c. rinviano agli usi contrari, attribuendo ad essi funzione integrativa-derogatoria della disciplina prevista dalla legge, ma, a differenza di tutti gli altri casi, solo nell’art. 1283 c.c. è usata la locuzione “in mancanza di usi contrari” senza alcun riferimento a pattuizioni contrarie ovvero a manifestazioni unilaterali di volontà quali “consenso” ovvero “ordine diverso”. A differenza delle altre norme richiamate, l’art. 1283 c.c. non prevede la possibilità di patti contrari.

L’unica pattuizione ammessa dall’art 1283 c.c. è quella che le parti possono porre in essere in data posteriore alla scadenza degli interessi dovuti per almeno sei mesi o dal giorno della domanda giudiziale. Una pattuizione relativa all’anatocismo successiva all’entrata in vigore del codice che si rivelasse non conforme alla disciplina dettata dall’art.1283 c.c. ovvero agli usi già esistenti (perché relativa ad un contratto diverso da quello con riferimento al quale l’uso si era formato ovvero relativa a soggetti diversi), è nulla perché contraria al divieto contenuto nella legge.

Non potevano formarsi usi contrari alla norma successivamente alla sua introduzione perché la natura della norma stessa, di carattere imperativo, impedisce il riconoscimento di pattuizioni e di comportamenti solo tacitamente manifestata. Non solo, “usi contrari” non avrebbero potuto successivamente formarsi perché la natura della norma, di carattere imperativo, impediva il riconoscimento di pattuizioni e comportamenti non conformi, impediva la realizzazione delle condizioni di fatto idonee a produrre la nascita di un uso avente la caratteristica dell’uso normativo.

Anche il ripetersi nel tempo non ne muta la condizione di legittimità, perché si tratta pur sempre di una prassi costituitasi su una condizione obbligatoria imposta dal contraente più forte e non frutto di una libera contrattazione. È, infatti, notorio che la Banca propone moduli uniformi in cui sono indicate condizioni (come quella della capitalizzazione trimestrale) non suscettibili di contrattazione individuale. Anzi, vi è di più: la Banca condiziona l’accesso al servizio bancario all’approvazione delle clausole contenute nel medesimo schema contrattuale.

Non si tratta e non si può trattare, quindi, di usi convenzionali, non potendo essere ricondotti all’espressione di una libera contrattazione di accordi condivisi da due parti posti sullo stesso piano contrattuale, paritario nella sostanza. Al contrario, è prassi che il contraente forte (Banca) imponga condizioni a quello più debole (cliente) che le subisce senza potersi difendere.

Per tale ragione, non ci si trova dinanzi a quella opinio iuris ac necessitatis quale condizione generale di legittimità di una prassi nella costante convinzione che si tratti di una regola di diritto. Queste condizioni restano sempre e soltanto condizioni pattizie, ed in quanto tali contrarie al divieto di cui all’art. 1283 cc. Neppure analizzandosi i precedenti delle raccolte antecedenti l’entrata in vigore del codice civile è rinvenibile un uso normativo che in quanto tale è derogatorio del divieto di cui all’art. 1283 cc. Analoga considerazione va fatta anche in relazione alle raccolte successive che, al di fuori del dato temporale successivo all’introduzione del dato normativo, finiscono per riferirsi a fattispecie particolari e non generalizzate e quindi non applicabili al caso concreto. Né soccorre la giurisprudenza della Cassazione formatasi negli anni 80/90 come sostenuto dal convenuto istituto di credito.

Difatti, il Giudice rileva che la Corte di Cassazione, con sentenza n. 21095/2004, ha deliberato a sezioni unite che non è sostenibile l’opinione secondo cui la fondazione di un uso normativo, relativo alla capitalizzazione trimestrale degli interessi dovuti alla banca, sia in qualche modo riconducibile alla giurisprudenza del ventennio antecedente al mutamento d’indirizzo del 1999. Ciò detto, è chiaro che la Cassazione ha una funzione nomofilatica che non può ontologicamente sospingere la portata interpretativa di una norma fino al punto di crearne una nuova. A ciò si aggiunga che il successivo intervento delle SSUU del 2004 offre una nuova prospettiva ricognitiva e correttiva dei precedenti arresti giurisprudenziali assumendo, in questo caso, natura interpretativa retroattiva.

Partendo, quindi, dal dato normativo, le clausole che prevedono la capitalizzazione trimestrale, imposte dalle banche sono riconducibili al novero degli usi negoziali e non normativi in quanto sono soltanto espressione dello squilibrio contrattuale e del predominio della Banca per cui manca quel minimo consenso della controparte contrattuale che è condizione necessaria per la nascita di un uso.

Da ciò discende la chiara violazione dell’art. 1283 cc poiché la chiusura periodica del conto con il conteggio degli interessi determina quella ulteriore produzione di interessi (anatocismo) che è consentita nei limiti ben determinati dall’art. 1283 che, come detto, prevede (salvo uso normativo contrario) la legittimità di un accordo successivo alla scadenza degli interessi dovuti per almeno sei mesi o dalla domanda giudiziale. Solo in questo modo il contraente debole è messo nella condizione di conoscere le conseguenze dell’applicazione dell’anatocismo. Una clausola preventiva è assunta in violazione del divieto di cui all’art. 1283 cc.

Tra l’altro, si legge nella sentenza, non possono soccorrere gli strumenti di integrazione contrattuale di cui all’art. 1374 cc che incontrerebbero il limite nelle pattuizioni illegittime che non possono essere integrate. Ma l’aspetto sicuramente più importante della sentenza in commento è che si assume che la delibera del CICR del 2000 non sia sufficiente per legittimare l’applicazione della clausola anatocistica.

Infatti, il Giudice ritiene che la delibera del 9.02.2000 introduca semplicemente la possibilità di modificare i contratti già in essere prevedendo l’applicazione della condizione della pari periodicità di liquidazione degli interessi, per qualcuno della capitalizzazione, in sostituzione della clausola nulla. La medesima delibera si esprime, però, solo sulla questione della condizione di reciprocità non potendo andare ad inserirsi in un contesto diverso quale quello della capitalizzazione assunta in violazione del dato normativo di cui all’art. 1283 cc.

La clausola contrattuale che prevede l’anatocismo resta pur sempre una clausola nulla perché adottata in violazione di un dato normativo preciso che prevede la deroga al divieto di anatocismo solo in presenza di un accordo tra le parti preso alla scadenza degli interessi dovuti per almeno sei mesi o solo dal giorno della domanda giudiziale, salvo gli usi (normativi) preesistenti. Quindi, le clausole contrattuali, proprio perché imposte dalla Banca in via unilaterale, non possono assurgere ad usi normativi e per ciò solo sono nulle. Né, tantomeno, si può considerare il contratto come frutto di un accordo tra le parti alla scadenza degli interessi dovuti per almeno sei mesi o solo dal giorno della domanda giudiziale.

In questo modo tutti i contratti sono nulli in relazione alla clausola che prevede l’applicazione dell’anatocismo, poiché tutti assunti in violazione del divieto di cui all’art. 1283 cc. La senzazione è che la sentenza farà certamente dottrina ma soprattutto sarà foriera di un po’ di giustizia all’interno del complesso mondo del contenzioso bancario. Il commento alla sentenza è stato redatto a cura dell’avvocato Marco Febbraio in collaborazione con il Consulemte Tecnico Salvatore Pratola.

Colpo alle banche, la sentenza che fa gioire i correntisti: i complimenti per il Dott. Ragozzini