“Sulla mia pelle” ha mostrato a una vasta platea il degrado della realtà giuridica del nostro Paese. Una conseguenza positiva della democrazia del web
Immaginate che un vostro parente stretto o un vostro caro amico sia arrestato. Immaginate che per sette giorni non riusciate a incontrarlo o ad avere sue notizie. Adesso immaginate che alla fine dei sette giorni vi sia detto che è deceduto. Immaginate che il vostro parente stretto o amico, mentre era in custodia dello Stato, vi venga consegnato morto. Così, all’improvviso, e che l’ultimo ricordo che avrete di lui sarà quello del suo cadavere, pallido, freddo e rigido, con il volto tumefatto.
Bene, questo è stato il calvario vissuto dalla famiglia Cucchi. Credevano che l’inferno potesse durare solo quei sette giorni, non pensavano che le sue fiamme li avrebbero bruciati per tutta la vita. L’unico sollievo è stato la loro battaglia per la verità. Hanno lottato continuamente nelle aule dei tribunali, sui giornali e davanti alle tv, chiedendo semplicemente giustizia per Stefano Cucchi. Stefano è finito in manette, in carcere e poi in obitorio perché spacciava. Comportamento da non santificare ma che non lo rendeva un narcos della mafia.
La storia risale al 2009. Siamo nel 2018 e lo scorso anno sono stati rinviati a giudizio cinque carabinieri. Nel mezzo, un processo che dal 2013 al 2016 ha ottenuto una sentenza di primo grado, una di appello poi annullata dalla Cassazione, e un’ultima sentenza al termine del processo di appello bis. Intanto, molti rappresentanti delle istituzioni, hanno addirittura deriso e offeso la famiglia Cucchi, perché Stefano era un tossico e quindi se l’è cercata. Una facilissima equazione della quale ancora nessuno si è scusato.
Dopo nove anni, però, è iniziato un nuovo processo che è stato caratterizzato da una svolta clamorosa: la confessione di un carabiniere che ha confermato le violenza subite da Stefano. Nel frattempo del “caso Cucchi” sono rimaste solo tre certezze: la morte di Stefano e il dolore della sua famiglia; il ruolo vergognoso delle istituzioni incapaci di custodire un cittadino sottoposto al regime di carcerazione preventiva; la sistematica cancellazione dello Stato di Diritto nel nostro Paese.
Il tutto è stato raccontato con enorme angoscia e un forte senso di tragedia nel film “Sulla mia pelle”. È qui è entrato in gioco internet o meglio la “rete” in senso lato. In modo specifico, invece, è diventato protagonista Netflix. La piattaforma streaming che trasmette film e serie tv è diventata ormai una casa di produzione a tutti gli effetti. Tra le sue creature vi è, appunto, “Sulla mia pelle“. La possibilità di poter guardare il film online ha permesso di organizzarne tante proiezioni gratuite in luoghi pubblici e questo ha scatenato molte polemiche rispetto al potenziale che ha il web. Quest’ultimo sarebbe il carnefice che avrebbe danneggiato le sale cinematografiche.
Ma se analizzassimo la cosa da un’altra prospettiva? È cioè che magari il “caso Cucchi” ha ottenuto grande risalto proprio perché è stato fatto un film che ne ha raccontato la storia? È che questa pellicola ha avuto poi la possibilità di raggiungere un’utenza maggiore di quella che sarebbe andata a guardare “Sulla mia pelle” al cinema? Non dimentichiamoci che il film è arrivato dopo 9 anni di lotta per la verità. Allora, perché non pensare che il carabiniere sia stato spinto a confessare le malefatte dei colleghi dopo aver visto il film? Perché non credere nella cultura come strumento di giustizia? Dunque, si potrebbe in questo caso parlare di vera libertà e democrazia della rete? Io penso proprio di si e se tutto questo ha permesso di infrangere il muro di violenza e omertà che da sempre ha caratterizzato questa vicenda, non posso che urlare: “viva Netflix e la rete!“.
Un’altro aspetto importante che il film ha descritto, è il contesto giuridico e detentivo del nostro Paese. Ad esempio, i tempi del processo sono un dato che dimostra la lentezza della giustizia italiana. Per questo il “Belpaese” è condannato dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU) a pagare multe per svariati milioni di euro. Solo di risarcimenti l’Italia ha speso, nel 2016, 77 milioni di euro. Il nostro Paese è quindicesimo nella classifica delle nazioni, tra quelle del Consiglio d’Europa, più sanzionate dalla CEDU. Una sentenza su cinque delle 9.944 (circa 2.000) che la CEDU ha emesso, secondo il portale politico.eu, ha riguardato l’Italia. In pratica il 22,3% del totale. Inoltre, soltanto nel 2017, il nostro Parlamento ha fatto sì che il reato di tortura diventasse finalmente una legge del nostro ordinamento.
In pratica secondo numeri e rapporti ufficiali, in Italia non è rispettato lo Stato di Diritto. Tali violazioni hanno causato danni giganteschi al nostro senso di umanità. Molti di questi sono raccontati nel film “Sulla mia pelle”: l’incattivirsi delle forze dell’ordine, l’esasperazione degli agenti della polizia penitenziaria, l’indifferenza dei medici. Un insieme di sentimenti negativi come rabbia, rassegnazione e violenza.
Oggi, nonostante anni di denunce in merito alla situazione esplosiva nelle carceri, la maggior parte di queste ultime è ancora colpita dalla piaga del sovraffollamento. La maggior parte dei detenuti è arrestata per reati minori ed è in attesa di giudizio (quindi in carcerazione preventiva), circa un terzo sarà dichiarato innocente. Inoltre, in molti penitenziari, il degrado è causato anche da sporcizia e casi di malasanità. Non solo i detenuti si trovano a vivere in condizioni disumane (senza lavoro e senza alcuna possibilità di reinserimento sociale così come previsto dall’articolo 27 della Costituzione), ma gli agenti della polizia penitenziaria sono costretti a lavorare in una situazione precaria e con scarsissime risorse.
Secondo i dati comunicati dal Sindacato autonomo della Polizia Penitenziaria, dall’inizio di quest’anno, ci sono stati 5.157 atti di autolesionismo, 46 morti per cause naturali, 30 suicidi e 585 tentativi di suicidio sventati in tempo. Eppure, la politica italiana è stata immobile e insensibile al tema, se non per l’approvazione di alcune misure che sono servite semplicemente a nascondere la polvere sotto il tappeto. Del resto nel paese dalla campagna elettorale permanente a quale partito può interessare la sorte degli “ultimi”?
Dopo quasi un decennio di battaglie, una coppia di genitori sta ancora cercando di scoprire cosa sia accaduto a suo figlio, morto mentre era sotto la custodia dello Stato. Resteranno impresse nella storia le immagini che hanno ritratto la sorella di Stefano, Ilaria, mentre ha mostrato fuori il Tribunale le foto del fratello con il volto martoriato. Tutto questo è accaduto in Italia, un Paese occidentale, cuore dell’Europa e culla del Mediterraneo. Un Paese nel quale è stato impossibile riformare la giustizia. Un Paese che per questo sta umiliando i suoi servitori in divisa e uccidendo i suoi figli.