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I bassi napoletani tra poesia, degrado e influenza suina

In due secoli di acquisizione dati relativi alle epidemie in Europa, Napoli s’è conquistata il triste primato della città a più alto tasso di infezione. Ciò significa che in due secoli, nel momento in cui sono scoppiate epidemie, Napoli non solo le ha vissute spesso in anteprima, ma ha registrato anche altissime velocità di contagio da parte del morbo. Come mai? La spiegazione risiede in una delle caratteristiche di Napoli: i bassi.

Parliamo di quelle abitazioni a piano terra che in realtà non nascono per essere adibite ad alloggi, come vedremo a breve. Spesso bilocali, ospitano ognuna famiglie da cinque o più elementi. Va da sé che la vivibilità interna è minima, e questi bassi finiscono per svolgere mera funzione di dormitorio. Nonostante ciò i bassi napoletani hanno saputo conquistare l’attenzione di personalità di spicco della cultura e della politica. Scopriamo chi e perchè.

Innanzitutto, cos’erano originariamente i bassi? Si trattava di magazzini e depositi costruiti in epoca medievale nel centro storico di Napoli. Erano destinati ad ospitare le merci in momentaneo stallo provenienti dal porto. Ma nel XV secolo le cose cambiano rapidamente. In seguito al primo fenomeno di inurbamento di massa, gli aragonesi, anziché ampliare la città attraverso incentivi all’edilizia, fanno l’esatto contrario: negano alla cittadinanza nuovi edifici.

Si pensava così facendo i contadini sarebbero stati dissuasi dal tentare l’avventura in città, e avrebbero preferito rimanere nelle campagne. Niente di più sbagliato. I contadini si riversarono in massa in una città che non era affatto predisposta per accoglierli tutti. E così andarono ad occupare gli unici edifici in grado di fornire loro un tetto: i bassi. I magazzini divennero case, senza avere però le caratteristiche minime di vivibilità, nemmeno per gli standard di quei tempi.

E proprio al XV secolo risale la prima testimonianza letterario di un “vascio” napoletano. Fu Masuccio Salernitano a rimanere colpito dal fervore di una realtà che impiegò pochissimo tempo a radicarsi. Prima di lui Boccaccio aveva già parlato della tendenza dei napoletani a vivere la strada, anziché le quattro mura. Tendenza confermata dagli abitanti dei bassi, che per ragioni di spazio, erano obbligati ad utilizzare le proprie “abitazioni” solo per dormirci.

Altra testimonianza illustre è quella del letterato Antonio Ranieri, che assistette alla misteriosa morte di Giacomo Leopardi a Napoli nel 1837. Si sospetta la morte del poeta di Recanati avvenne per un contagio di colera, che aveva flagellato Napoli con 20000 morti in un anno. E qui ritorniamo alla nostra iniziale statistica, per cui i focolai delle peggiori malattie divampano a Napoli su un terreno a loro favorevolissimo.

Risale al 1881 il primo tentativo di dare una consistenza numerica al bassi, con un censimento teso a comprendere un fenomeno considerato ormai pericoloso. La realtà che ne emerge è di grande portata: ventimila bassi per 100000 abitanti. Una media già altissima in condizioni di normalità. Se si pensa che solo tre anni dopo scoppiò una tremenda epidemia di colera, il dato diveniva ancora più significativo.

Luoghi stretti e fatiscenti, con grande concentrazione di persone, abituate alla condivisione di ogni spazio e ad una igiene precaria o del tutto assente, erano un toccasana per virus e batteri di ogni tipo. I numeri che emersero dal censimento fecero inorridire l’Italia, che gridò allo scandalo da ogni pulpito politico, ma allatto pratico di proposte ve ne furono poche e poco serie.

Matilde Serao, scrittrice e giornalista famosa, si scagliò contro le soluzioni ipocrite dei benpensanti: “Sventrare Napoli? Credete che basteranno tre, quattro strade, attraverso i quartieri popolari, per salvarli. Voi non potrete lasciare in piedi le case lesionate dall’umidità, dove le strade sono ricettacoli d’immondizie, nei cui pozzi vanno a cadere tutti i rifiuti umani e tutti gli animali morti […] Bisogna ricostruire Napoli quasi daccapo…”.

L’accorato intervento non servì a nulla. I successivi censimenti furono impietosi. Nel 1931 43000 bassi ( vs 200000 abitanti ) riportavano la scritta paradossale: “Terraneo non destinabile ad abitazione”. In seguito ai bombardamenti della guerra, i bassi furono ricostruiti. Avete letto bene, ricostruiti. Da chi? Mistero. Nel 1943 scoppia una nuova epidemia. Risultato? Nel decennio successivo 60000 bassi. Nel 1965 la tendenza comincia a ridimensionarsi. I bassi scendono a 45000.

Ma le cattive abitudini italiane sono dietro l’angolo. Negli anni 70 arriva l’agognato via libera alla costruzione di nuove case popolari. Molti abitanti di bassi vengono assegnati lì. E loro che fanno? Affittano le case popolari, e rimangono a vivere nel loro bel basso, al riparo da occhi indiscreti, e liberi di poter trafficare come meglio si credeva. Non tutti, ovviamente, ma non è una realtà di fronte alla quale chiudere gli occhi.

Per quanto i bassi napoletani siano stati adottati dalla letteratura come spunti di grande costume, ingegno, ed umanità (vedi il teatro del grande Eduardo de Filippo), e per quanto i letterati, pur non romanzandoci sopra, ne sono rimasti tutti affascinati, la realtà storica parla di disagio, malattia, e malaffare. La storia dei napoletani, però, parla di resistenza e adattamento, forza d’animo e passione. Ecco perchè i bassi sono ancora lì, inabitabili e abitatissimi.