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Frana di Posillipo del 1948, 26 morti sotto le macerie della strage dimenticata

Il primo novembre del 1948 a Posillipo una frana travolgeva per sempre 26 persone, tutte all’interno di una piccola abitazione, detta “La Casa del Custode Merlino“. Il servizio dell’epoca, firmato Istituto Luce, descrive con un solo minuto di immagini strazianti l’agonia di una tragedia che, ben lungi dall’essere numerica, coinvolse nel dolore tante, troppe famiglie. Le parole finali del giornalista sono indicative: “Feretri, feretri, feretri ancora che se ne andranno lassù a Poggio Reale. Riposeranno per sempre dentro la terra che li ha uccisi“.

Ma fu davvero la terra ad uccidere quegli innocenti? L’editoriale di Alberto Consiglio, direttore all’epoca del quotidiano “Risorgimento”, sembrerebbe suggerire di no. Ma altrettanto realisticamente parlava di quel “muro di gomma” che avrebbe impedito di fatto l’individuazione dei colpevoli per quei “40 anni di frane”: il disincantato giornalista prevedeva già il rimbalzo infinito di responsabilità, che avrebbe portato i responsabili al numero di zero.

A prescindere da numeri e responsabilità, la portata della tragedia fu vasta, ed ebbe larga eco nel territorio nazionale. Dopo 36 ore di scavi e quattromila metri cubi di materiale rimosso, furono ritrovati i corpi delle ultime vittime della frana di Posillipo, intorno alle dieci di sera. Un pomeriggio di macabre scoperte cominciato dalle 15:50, ora in cui fu rinvenuto esanime il primo bambino. Il primo di una lunga serie.

I bambini morti furono in tutto nove: due maschietti e sette femminucce. A rimanere intrappolati nell’inferno di tufo e fango anche i loro genitori: nove donne e sette uomini. Il triste conteggio ci porta così al numero di 25 vittime. Ma si parla di 26 perché all’interno di quella casa un cadavere c’era già: si trattava di Vincenza Sodano, portiera dello stabile, deceduta la sera prima del crollo, e adagiata sul letto di morte poco prima che la terra si facesse per lei tomba.

I lavori per provare a reperire vivi i dispersi furono febbrili. Si misero all’opera 280 vigili del fuoco, una quarantina di operai del Genio Civile, e un numero indefinito di volontari. Dopo un giorno di lavoro tutta la terra rimossa fu riversata nuovamente dov’era stata estratta, perchè chi di dovere intravide il pericolo di nuovi crolli, lasciando la situazione così compera. E così tutti videro vanificate 24 ore di sforzi, e riseppellirono le speranze sotto coltri gialle di tufo.

All’indomani si riprese a scavare e nel primo pomeriggio, come detto, la terra cominciò a restituire i corpi. La scena che si mostrò a chi era lì presente in occasione della prima estrazione, fu raccapricciante: la frana aveva fatto scempio del corpicino di un bambino, fino a renderlo un tutt’uno con la terra stessa. Le speranze di chi voleva a tutti i costi ritrovare i propri affetti, scivolarono via con le prime lacrime.

Posillipo si trasformò in un lento corteo funebre. Un uomo venne estratto in due tornate perchè il suo corpo era stato letteralmente spezzato a metà dal crollo di un pilone che lo aveva troncato all’altezza del bacino. Fu poi la volta di quella bambina bionda, immobilizzata dalla frana nell’atto di aggrapparsi disperatamente al seno della madre, nel tentativo drammatico di trovare conforto al terrore.

Una madre sopravvissuta assistette impietrita al passaggio in barella del corpicino esanime di sua figlia. Non si mosse, se non per congiungere le mani e sigillarle. Un cane bianco abbaiava ostinatamente su un cumulo di terra, attirando le attenzioni degli scavatori, che immediatamente cominciarono a spalare proprio in quel punto. Lì ritrovarono il suo padrone, il marito della portinaia, ancora inginocchiato al capezzale della moglie morta la sera prima.

Una delle vittime, al contrario del marito della portinaia, aveva tentato di sfuggire al suo destino dirigendosi presso una piccola cucina ricavata all’interno di una grotta scavata nel tufo. Fosse riuscito davvero a raggiungerla, si sarebbe probabilmente salvato, perchè quella grotta fu l’unica porzione della casa a non crollare. Ma non ce la fece.

Il suo busto fu ritrovato che sporgeva nella cucina. Ma le sue gambe erano rimaste intrappolate pochi centimetri dietro, orrendamente macellate nella morsa dei detriti della frana di Posillipo. Probabilmente quell’uomo morì di una morte atroce e lentissima, dissanguato progressivamente, con gli occhi a lungo aperti sulla sua salvezza, perduta per pochi istanti.

E poi c’è la storia della Marchesa Avitabile, giunta in quell’abitazione per tentare di dare una mano alla famiglia della portinaia morta, impossibilitata a concedere degni funerali per mancanza di danaro. Aveva 30 anni, la marchesa, quando fu sorpresa, insieme agli altri, dalla frana. Lasciò vedovo un marito che aveva sposato da pochissimo, ed un ricordo di sé splendido.

La classica corsa alla solidarietà partì senza indugi. Furono in tanti a promuovere iniziative di raccolta fondi per i familiari delle vittime della frana. Si trattava di gente molto povera, è vero. Il denaro raccolto fu certamente utile. Ma più importante, fu il simbolo della solidarietà di un popolo che solo da pochi anni aveva smesso di essere bombardato quotidianamente a causa della grande guerra.