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“Va’ a vasà ‘o pesce ‘e San Rafèle”, la storia dell’usanza napoletana

Come può la tenera storia di due amanti, passare per la Chiesa di San Raffaele nel quartiere Materdei di Napoli, farsi benedire da un enorme fallo priapico invisibile agli occhi, ed essere riassunta nelle poche parole di un castissimo detto: “Va’ a vasa’ ‘o pesce ‘e San Rafele”? Che domande. Può, perchè si è a Napoli, la città dove tutto è trasparente e niente è come sembra, la città in cui per ingraziarsi la benevolenza di un arcangelo, ci si deve dimenticare che lo è.

Tobia non si dimenticò di lui. Non sapeva proprio fosse un arcangelo. La storia che sta dietro il detto del pesce di San Raffaele è la sua storia, la storia di Tobia, raccontata nel Libro di Tobia, che troverete in qualsiasi Bibbia a cui non manchino proprio quelle pagine. In questo libro si narra del lungo viaggio di Tobia, figlio di Tobi, intrapreso per volontà del padre allo scopo di recuperare del denaro.

Si offre di accompagnarlo uno sconosciuto, che dice di conoscere bene le strade che conducevano in Ecbatana, dal fratello di Tobia, Raguele. Nessuno poteva sapere in quel momento che quello sconosciuto era l’Arcangelo Raffaele, che in Ecbatana Tobia avrebbe incontrato sua cugina Sara, figlia di Raguele, e che l’avrebbe sposata. Nessuno a quel punto poteva sapere nemmeno del grande pesce.

Tobia e Raffaele si mettono in viaggio. Ad un certo punto Tobia sente l’esigenza di dare refrigerio ai propri piedi, e mentre se li lava tranquillamente sulle rive del Tigri, viene assalito da un pesce gigantesco, che gli azzanna i piedi a mo di tenaglia. Non fa in tempo ad urlare per il dolore, che il compagno di viaggio, anziché aiutare Tobia, lo invita a prendere quel pesce, sventrarlo, ed estrarne fiele, cuore e fegato.

Stupefatto da tanta crudeltà, Tobia esegue senza fiatare. Poi, a mente fresca, chiede a Raffaele il perchè di quelle estrazioni. Se ne potevano ricavare utili unguenti medici. Questa la lapalissiana risposta di Raffaele. I due proseguono il viaggio e giungono incolumi a casa di Raguele. Lì Raffaele, che ricordiamo non si manifestava con ali e aureola, ma come semplice sconosciuto, riferisce a Tobia che avrebbe dovuto sposare la figlia di Raguele, Sara, sua cugina.

Anche in questo caso, Tobia acconsente. Raffaele gli spiega anche che non sarà necessario implorare Raguele di concedergli la mano della figlia, perchè spetta a Tobia di diritto (la parentela al tempo aveva di questi “vantaggi”). Lo informa altresì che c’era quel piccolo inconveniente.. “Quale?”. I precedenti sette mariti di Sara sono tutti morti atrocemente durante la prima notte di nozze.

Tobia si fida ciecamente dello sconosciuto anche quando gli vien spiegato che quelle morti avvenivano a causa di un demone che si era impossessato di Sara, e che a lei non faceva alcun male. Faceva male ai suoi mariti. Ma niente paura. Tobia aveva il fegato e il cuore del pesce. Quindi il demone se la sarebbe data a gambe levate, non appena avesse odorato quel puzzo nauseabondo.

Tobia si fida ciecamente, ottiene in sposa Sara, e per rendere straordinaria quella prima notte di nozze, mette sulla brace il cuore e il fegato del grande pesce, il cui olezzo invade immediatamente la stanza, mettendo effettivamente in fuga il demone. La mattina seguente Raguele, felicissimo che l’ottavo marito fosse sopravvissuto a Sara, gli affida metà del suo patrimonio e lo tiene ospite per quindici giorni.

Raffaele svelerà la sua identità solo più tardi, quando tornato da Tobi, padre di Tobia, consiglia a quest’ultimo di usare il fiele del grande pesce per guarire la cecità di suo padre. Tutti ricchi, felici, e contenti, insomma. E’ per questa ragione che San Raffaele Arcangelo è rivestito del ruolo di protettore dei fidanzati, degli sposi, e dell’amore in generale.

Il San Raffaele che troneggia a Napoli, all’interno di una teca nella chiesa del 1759 a lui consacrata, fa di più. Nella convinzione dei napoletani, da sempre quella statua è in grado di aiutare i fidanzati e gli sposi a completare la famiglia con un figlio. In altre parole, quel San Raffaele Arcangelo è in grado di concedere fertilità alle coppie che ritengono di avere dei problemi a procreare.

Siamo alle solite. Priapo si è infilato in una situazione che non gli competeva, anche in questo caso. Accade spesso a Napoli che i simboli della religione e quelli dei più antichi retaggi pagani si incontrino in intersezioni improbabili e sacrileghe. E così l’Arcangelo protettore dell’amore, finisce per diventare l’Arcangelo dispensatore di fertilità.

Ma se vogliamo essere più specifici, andremo incontro al dettaglio più succoso. L’antico rito in grado di donare fertilità alle coppie innamorate prevede non una semplice invocazione, o una piccola preghiera. Il rito prevede che la donna baci il grande pesce che è ai piedi della statua di San Raffaele. Il grande pesce della storia di Tobia, diventa nel folklore napoletano, il pesce di San Raffaele Arcangelo.

Se qualcuno non avesse capito nulla di questa storia, sveliamo l’arcano. A Napoli il pesce è sinonimo di fallo. Del tutto inutile spiegare quindi il doppio senso che sta dietro l’espressione “Va’ a vasa’ ‘o pesce ‘e San Rafele”. Quando la moglie del primo re d’Italia, Vittorio Emanuele II, si sentì consigliare qualcosa del genere, torinisticamente inorridì. Ma poi, un bacio scoccato ad una statua, discreto e furtivo, ed ecco la discendenza Savoia, sfornata. Almeno così assicura siano andate le cose Roberto de Simone, in una sua nota canzone.