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La vera storia di Giuseppe Moscati, il medico dei poveri diventato Santo

Nella Chiesa del Gesù Nuovo, all’interno della Prima Cappella della navata situata a destra, campeggia in bella mostra una statua di bronzo. Ritrae l’effige di un uomo in camice, con lo stetoscopio al collo e la mano destra aperta, protesa in avanti in segno di saluto. Chi è questo strano personaggio e, soprattutto, perchè quello che sembra essere a tutti gli effetti un medico è custodito all’interno di un luogo sacro? La situazione si complica nell’esatto momento in cui ci rendiamo conto che numerosi fedeli napoletani oltrepassano la balaustra solo per stringergli la mano proprio come si fa con un vecchio amico e si allontanano, spesso, con due lacrime che solcano il loro volto.

Non c’è voluto molto tempo prima che venisse alla luce la vera identità di quella statua. Si trattava di Giuseppe Moscati innalzato, non molto tempo fa, esattamente nel 1987, agli onori degli altari. L’uomo nacque a Benevento il 25 luglio 1880, era il settimo di nove figli. Sua madre rispondeva al nome di Rosa De Luca, discendente dalla nobile famiglia dei Marchesi di Roseto, mentre suo padre Francesco era Presidente del Tribunale di Benevento. La famiglia originaria di ‘Beneviénte fu costretta a trasferirsi a Napoli nel 1884 quando il padre magistrato venne investito delle funzioni di presidente della Corte d’Assise nel capoluogo campano. All’epoca Giuseppe aveva solo quattro anni.

Nella città della sirena Parthenope il piccolo Moscati seguì con profitto i normali corsi di istruzione primaria per poi approdare all’Istituto Vittorio Emanuele, dove conseguì la maturità classica con ottimi voti nel 1897. Fu proprio quell’anno, esattamente il 19 dicembre del 1897, che Giuseppe Moscati ebbe la sventura di assistere alla morte improvvisa del padre, stroncato da un’emorragia cerebrale. Francesco era di ritorno a casa dopo aver partecipato alla Messa, quando si sentì male. Solo il 21 dicembre 1897 però, dopo aver ricevuto i Sacramenti e aver affidato la moglie e i figli al primogenito Gennaro, l’uomo rese la sua anima a Dio.

Fu un duro colpo per Giuseppe. Il ragazzo amava quell’uomo così probo e devoto. Il dolore fu quindi immenso. La casa di via Santa Teresa degli Scalzi era ormai un guscio vuoto ma pieno di ricordi. La vita ovviamente proseguì ma quella ferita continuò a tormentarlo per tutti gli anni a venire. Non deve sorprendere quindi se Moscati, alcuni anni più tardi, ad un collega che aveva perduto il padre così scriveva: “Ho con vivissimo cordoglio appreso della morte del Vostro amatissimo padre! Comprendo lo strazio di famiglia! Anch’io l’ho provato da ragazzo: e mio padre era integro magistrato come il Vostro caro scomparso; ma Iddio si sostituisce a colui che vuole con sé! E Voi e i Vostri sentirete l’arcana protezione, che vi prodigherà, sempre presso di Voi, ma invisibile, l’anima del genitore.

La sensibilità era d’altronde un tratto caratteriale ben evidente in Giuseppe Moscati sin dalla più tenera età. Il futuro medico aveva sempre mostrato una certa tendenza ad aiutare il prossimo, specie i più deboli e i diseredati. Più volte, infatti, fu visto mentre furtivamente faceva scivolare la colazione nelle mani imploranti di qualche povero che sostava fuori scuola. Per non parlare poi dell’indole amorevole della sua anima. A soli 15 anni Giuseppe trascorreva molto del suo tempo ad accudire il fratello. Alberto era un giovanissimo ed esuberante tenente di artiglieria, dotato di fascino, ricchezza e talento. Purtroppo, nel 1892, durante una parata militare a Torino, cadde da cavallo. Questo incidente lo rese inabile e soggetto a continua crisi epilettiche.

Giuseppe Moscati avrebbe sacrificato la sua vita pur di ridare ad Alberto il vigore della gioventù, purtroppo non poté fare altro che assisterlo fino alla morte che arrivò inesorabile il 12 giugno del 1904. Nonostante un’esistenza all’insegna della sofferenza, gli studi in Medicina di quello che sarebbe poi, un giorno, divenuto il ‘Medico dei Poveri‘ proseguivano. La sua iscrizione all’Università avvenuta lo stesso anno in cui morì il padre, nel 1897, di lì a poco gli avrebbe per sempre cambiato la vita. Il 4 agosto 1903, Giuseppe Moscati si laureava in medicina e qualche mese più tardi iniziava a lavorare presso l’Ospedale degli Incurabili, la grandiosa struttura voluta da una pia donna, la catalana Maria Lorenza Longo.

Con umiltà e dedizione Giuseppe si avviava a diventare il medico più amato dai napoletani. L’uomo, infatti, alternava la cura dei malati all’aggiornamento professionale. Era mosso da un forte desiderio di conoscere l’origine del male, molto probabilmente per potervi porre rimedio. E questa passione per la ricerca Moscati era in grado di trasmetterla ai giovani medici. Non si trattava però di una ricerca finalizzata a soddisfare i propri bisogni egoistici perchè andava condotta prima di tutto “in quel libro che non fu stampato in caratteri neri su bianco, ma che ha per copertura i letti ospedalieri e le sale di laboratorio, e per contenuto la dolorante carne degli uomini e il materiale scientifico, libro che deve essere letto con infinito amore e grande sacrificio per il prossimo“.

E furono proprio il sacrificio e l’amore per il prossimo ad accompagnare il giovane medico nel corso della sua breve esistenza. Proprio così, breve. Il 12 aprile 1927, era di martedì santo, il professore Moscati, dopo aver partecipato, come ogni giorno, alla Messa e aver ricevuto la Comunione, si recò in Ospedale dove trascorse la mattinata. Quindi tornò presso la propria dimora, consumò un frugale pasto e si dedicò alle consuete visite. Verso le ore 15 accusò un dolore, si adagiò sulla poltrona, e, dopo aver incrociato le braccia sul petto, rese la sua anima a Dio. Aveva 46 anni e 8 mesi. La notizia della morte improvvisa subito rimbalzò di bocca in bocca: “E’ muorto ‘o miedeco santo“. Se ne andava così Giuseppe Moscati, il medico santo da cui tutta Napoli correva per chiedere un parere professionale.

Ed era soprattutto verso i poveri che il dottore di adozione napoletana sviluppò una sorta di profondo amore platonico. Non solo durante le visite offriva loro il meglio di sé disinteressandosi completamente del ceto sociale di provenienza, ma non domandò mai un compenso e, soprattutto, lasciava loro i soldi per le medicine che prescriveva. Quando, con sofferenza, era costretto a pronunciare una prognosi infausta, qualunque fosse il livello economico della casa, non accetta onorario. Questo era in sintesi Giuseppe Moscati, un uomo votato al sacrificio e all’amore e Napoli ricambiò questi sentimenti con lo stesso trasporto tanto che nel registro delle firme, posto nell’ingresso della casa, fu trovata questa frase: “Non hai voluto fiori e nemmeno lacrime: ma noi piangiamo, perché il mondo ha perduto un santo, Napoli un esemplare di tutte le virtù, i malati poveri hanno perduto tutto!