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Pietrarsa, il sogno di Ferdinando II infranto dai piemontesi

Come un Dio di cui non si conoscano le leggi, il Vesuvio si risveglia e punisce. E’ accaduto innumerevoli volte, così come accadde nel 1631, quando una sua esplosione trasformò Leucopetra in Pietrarsa. Non è difficile intuire l’etimologia che soggiaceva a questi due nomi. Prima la riva di Portici era una distesa bianca, di sabbia e ciottoli. Poi divenne nera, a causa degli effetti dell’eruzione, che sottrassero interi metri al mare antistante.

Nasceva così Pietrarsa, la cui fama, due secoli più tardi, si estese a tutt’Europa grazie ad una intuizione del re Borbone Ferdinando II: competere nel campo delle ferrovie con le nazioni più industrializzate, anziché dipendere. Riuscì il Re Ferdinando II nel suo ambizioso intento di valorizzare l’ingegno e la creatività delle risorse umane napoletane, anziché importare i prodotti di intelligenze straniere?

Una prima risposta a questa domanda arrivò nel 1939, quando fu inaugurata la prima linea ferroviaria italiana, la Napoli-Portici. Sette chilometri e mezzo in 10 minuti: tempi che, proiettati nell’oggi, andrebbero paragonati ad una percorrenza a bordo di una Formula Uno. Ricordiamo anche i nomi della Vayard e della Vesuvio, le due locomotrici impiegate all’inaugurazione.

Una linea ferroviaria significa vantaggi economici spropositati, ma restava il problema di procurarsi treni, locomotrici, vagoni. Perché chiederli all’estero quando si poteva essere perfettamente in grado di fabbricarseli da sé? Nella visione di Ferdinando II bisognava viaggiare più velocemente del futuro, per afferrarlo e portarlo a Napoli. E per viaggiare veloci, occorrevano treni.

Il terreno ideale per una fabbrica che potesse realizzare questo progetto, con vaste potenzialità di espansione, venne individuato a Portici. Nel 1842, ultimata la Torneria, fu l’ora dell’inaugurazione ufficiale del Real Opificio Borbonico di Pietrarsa. Un anno più tardi il Re era talmente soddisfatto della sua creazione, che emanava un editto reale.

Per decisione del Re, il Real Opificio di Pietrarsa avrebbe dovuto fabbricare e riparare vetture per la nuova linea ferroviaria Napoli Capua. Ovvero, l’idea di svincolarsi dalla produzione straniera, a Pietrarsa procedeva speditamente. Solerzia, efficienza, numeri, dati, produzione, qualità, innovazione, erano solo alcuni dei tratti distintivi di questo piccolo nucleo industriale.

Nel primo decennio di attività la fabbrica riceve attestazioni di stima ed interesse da parte dei regnanti di mezza Europa. Parliamo di personalità quali lo zar Nicola I, che volle visitare personalmente la fabbrica, ordinando ai suoi tecnici di riprodurla integralmente in Russia. Persino il Papa trovò il tempo di recarsi negli stabilimenti di Pietrarsa.

In 10 anni gli operai impiegati nella fabbrica passarono dalle 200 unità iniziali a 700. Non solo perchè la richiesta aumentava (vedi necessità del Piemonte di rimanere al passo in campo ferroviario, e conseguente corsa nell’accaparrarsi vetture prodotte in Pietrarsa), ma anche perchè le condizioni di lavoro erano studiate, come nei più recenti orientamenti, per assicurare un ambiente sano agli operai (con conseguente miglior resa operativa).

A questo si aggiungano degli stipendi di tutto rispetto, che assicuravano alle famiglie degli operai un dignitosissimo stile di vita; orari lavorativi in linea con quelli moderni (otto ore anziché le sedici desunte dalla media europea per la classe operaia); erano previste addirittura pensioni statali per garantire una vecchiaia serena.

Non ci si sorprende affatto, quindi, nello scoprire che la fabbrica di Pietrarsa arrivò a contare 1500 dipendenti, e che i treni lì prodotti venivano prenotati per progetti di ampio respiro, molti dei quali vedevano Napoli al centro di fitte trame ferrate che la collegavano con sempre maggior frequenza al resto d’Italia.

Poi, all’improvviso, l’Unità d’Italia, e la frase pronunciata nel Parlamento di Torino da Carlo Bombrini, responsabile per le politiche economiche: “Il Sud Italia non dovrà essere più in grado di intraprendere”. Non si sa se essere più scandalizzati dal contenuto della frase, o dal cinismo con cui fu pronunciato l’intento. I fatti diedero un seguito tragico alle parole.

Dal 1860 tutte le richieste giunte a Pietrarsa, vennero assunte dalla corrispettiva fabbrica piemontese, proprietà indovinate di chi? Di Carlo Bombrini, comproprietario della Ansaldo, seconda fabbrica italiana per numero di impiegati e dimensioni, dopo Pietrarsa. Quest’ultima fu affidata in gestione alla ditta Bozza.

Più che gestire la fabbrica, la ditta Bozza si occupò di agevolarne la dismissione: vessazioni di ogni tipo, tagli ai posti di lavoro, peggioramento delle condizioni di vita degli operai superstiti, fino a quando il malcontento degli operai esplose nel primo sciopero in Italia, datato 1963 ed affogato nel sangue. Le forze armate spararono sulla folla uccidendo 7 persone.

La protesta degli operai di Napoli finì per accelerare un processo già inesorabilmente avviato. Nella fabbrica di Pietrarsa rimasero solo 100 operai, e si occuparono esclusivamente di riparazioni, mentre la produzione di treni locomotori e carrozze passò in mano piemontese. Con l’avvento di nuovi tipi di treni, a diesel o elettrici, la fabbrica di Pietrarsa, mai più ammodernata, andò a spegnersi lentamente fino al 1975, quando venne chiusa per sempre.

Oggi, di quella gloriosa impresa, resta un museo, il primo Museo Nazionale Ferroviario, inaugurato nel 1989. I vecchi locali della produzione, i vecchi magazzini, le vecchie vetture, tutto è stato reso praticabile, soprattutto negli ultimi tre anni, con lavori di ammodernamento che hanno incrementato l’afflusso turistico del 90%.