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Ci sono “Diego” e “Maradona” in una Napoli paradiso e inferno per Dios

Una sfida ai luoghi comuni del bel documentario che ha dipinto un quadro inedito e mai visto del campione argentino conosciuto come "El Pibe de Oro"

Siamo nella seconda parte del docufilm, il lungometraggio sta volgendo quasi al termine. L’inquadratura è fissa sopra un primo piano di Diego. Maradona è alla cena di Natale del Napoli, era il 1990 e la squadra azzurra era diventata campione d’Italia per la seconda volta.

Eppure, durante la lunga ripresa, lo sguardo di Maradona è triste e malinconico. Diego era al termine della sua avventura partenopea e in generale la sua carriera da calciatore si stava avviando sulla via del tramonto.

Non è un caso che la scena successiva è una meravigliosa inquadratura del Vesuvio, preso in pieno e dall’alto. A Napoli è sera e la camera fa un giro di 180° intorno al vulcano prima di rivelare lo splendido golfo illuminato dalla luci della città.

In quel momento sono partite le intercettazioni che hanno fatto esplodere il caso giudiziario nel quale il fuoriclasse argentino è stato coinvolto e che ha segnato la sua caduta da sportivo. Stiamo parlando del documentario “Diego Maradona“.

Ad averlo girato il regista Asif Kapadia, vincitore di un premio Oscar per un altro docufilm dedicato alla compianta Amy Winehouse. È evidente che l’obiettivo del cineasta inglese è stato quello di raccontare le vite di grandi personaggi dall’esistenza maledetta e che sono tutt’oggi ancora miti e leggende.

È stato così anche per Diego Armando Maradona. La pellicola è molto bella ed è ben fatta. Fare un film su un personaggio come Dios non è affatto facile. Eppure Kapadia ha avuto il merito di non essere stato banale e di essersi affidato a materiali del tutto inediti.

Il regista è riuscito a sfidare i luoghi comuni ed ha raccontato la figura del Pibe de Oro attraverso il rapporto che egli ha avuto con Napoli. Il motivo è semplice: in quegli anni Diego ha vinto un mondiale segnando una doppietta storica contro l’Inghilterra (la famosa Mano de Dios e il capolavoro considerato ancora il più bel gol realizzato su di un campo da calcio) in un periodo in cui i britannici erano in guerra con l’Argentina a causa delle Isole Falkland.

L’anno successivo alla conquista della coppa del mondo in Messico, Maradona è riuscito a vincere il primo scudetto con il Napoli. Quella fu la vittoria di un’intera città in un paese già caratterizzato da evidenti fratture territoriali, economiche e sociali. Questi due successi fecero entrare Diego nell’Olimpo del calcio e della storia.

Il documentario ha raccontato in modo intelligente il rapporto di amore e odio che Maradona ha avuto con Napoli. Una città, quella partenopea, che gli ha dato e tolto tutto. Che lo ha reso un Dio prima di sbatterlo all’inferno. “Al mio arrivo c’erano 80mila napoletani, quando andai via ero solo“, ha detto Diego durante il film.

E l’ambivalenza di Napoli si è rispecchiata in quella di Maradona. A spiegarlo il suo preparatore atletico personale Fernando Signorini: “Dentro casa era Diego, il bravo ragazzo che tutti conoscevamo. Ma quando usciva diventava Maradona. Gli dissi che con Diego sarei andato in capo al mondo ma con Maradona non avrei voluto fare un passo di più. Mi rispose che se non fosse stato per Maradona sarebbe rimasto a fare la fame in Argentina“.

Diego, il ragazzo venuto dal nulla da quella favela che è stata Villa Fiorito. Lo stesso Diego che dall’età di 15 anni grazie al suo talento ha mantenuto un’intera famiglia. Il Diego “vittima” di Corrado Ferlaino, Presidente e artefice delle vittorie del Napoli ma allo stesso tempo “carceriere” di Maradona. Il Diego che balla, che ama sua moglie Claudia, che bacia e sorride alle sue figlie.

Ma anche il Diego solo e abbandonato, in preda alle cattive amicizie. Il Diego della cocaina, dell’alcol e della bella vita. Il Diego che non si allenava per poi ripulirsi e prepararsi per le partite due, tre giorni prima del match. In “Diego Maradona” c’è tutto questo, c’è il Dios, c’è El Pibe de Oro ma c’è soprattutto l’uomo che indossava quella maglia numero 10, con tutte le sue forze e debolezze.

Nel docufilm è descritta la personalità di Maradona che ben presto ha fatto i conti con la macchina del fango italiana. Il tritacarne mediatico-giudiziario è riuscito, dopo il secondo scudetto vinto dal Napoli e l’eliminazione dell’Italia da parte dell’Argentina ai mondiali del ’90 (in una discussa semi finale giocata, guarda caso, proprio al San Paolo), ad affossare Diego “trasformandolo” ben presto in un tossico, in uno sfruttatore della prostituzione, in un evasore del fisco e in un dopato.

L’aspetto più interessante che da sempre ha caratterizzato la storia di Diego Armando Maradona è quello antropologico. Nella sala del cinema tutti conoscevano a memoria i suoi gol. E tutti sorridevano e si commuovevano nel guardarli l’ennesima volta. Attorno a me c’erano persone che hanno vissuto direttamente quegli anni. Con loro c’erano i figli e i nipoti.

Dios ha avuto il merito di trasmettere se stesso e la sua vita attraverso le generazioni. La sua esistenza ha abbattuto le barriere dello spazio tempo. Diego Armando Maradona continuerà a vivere attraverso le sue gesta, belle e brutte, e a Napoli non sarà mai dimenticato. Ma per raccontarlo era necessario il punto di vista oggettivo di un “alieno“. E in questo Kapadia si è dimostrato un marziano ma molto umano.

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