La strage di via Caravaggio è uno dei fatti di cronaca nera più tristemente famosi della storia del crimine, conosciuta anche come “delitto perfetto” per cui ad oggi non è stato ancora trovato il colpevole. Il caso in realtà è molto più complicato di quello che sembra infatti per il triplice omicidio di Gemma Cenname, 50 anni, il marito sposato in seconde nozze Domenico Santangelo, 54 anni, e la figlia di quest’ultimo, Angela, 19 anni, c’è sempre stato un solo imputato, Domenico Zarrelli, nipote di una delle vittime. L’uomo ha già subito tre processi, condannato all’ergastolo in primo grado fu assolto due volte in appello con conferma della Cassazione in via definitiva. Dopo 40 anni il suo dna è stato rinvenuto su alcuni mozziconi di sigarette e su un canovaccio che all’epoca dei fatti furono trovati nell’appartamento. Per il principio giuridico “Ne bis in idem” (non si può processare per una seconda volta per lo stesso reato una persona già assolta con sentenza definitiva) Zarrelli non può più essere processato per lo stesso caso dunque il presunto colpevole resterà per sempre tale.
L’efferato omicidio è stato al centro non solo dei processi in tribunale, ma anche di quelli mediatici per cui diverse trasmissioni giornalistiche si sono occupate della vicenda. Nella notte tra il 30 ottobre e il 31 ottobre del 1975 a Napoli, nel quartiere di Fuorigrotta in un appartamento al quarto piano in via Caravaggio, fu massacrata un’intera famiglia. Padre, seconda moglie e figlia furono colpiti prima alla testa con un oggetto contundente e poi sgozzati. I primi due infatti morirono subito, mentre la 19enne morì sul colpo e solo dopo l’assassino praticò ugualmente lo sgozzamento. L’omicida non risparmiò nemmeno il cagnolino di razza Yorkshire, soffocandolo nella sua copertina. Le tre vittime furono ritrovate solo 8 giorni dopo l’assassinio, l’8 novembre, quando i vigili del fuoco irruppero nell’appartamento chiamati dalla polizia avvisata a sua volta da uno dei parenti delle vittime, Mario Zarrelli. Lo scenario che il pompiere si trovò di fronte fu agghiacciante infatti le forze dell’ordine poterono poi entrare in casa solo dotati di mascherine a causa della forte puzza di sangue e di decomposizione, i corpi di marito e mogli erano stati depositati l’uno sull’altro nella vasca da bagno in 20cm d’acqua, forse per ritardare la putrefazione, mentre quello della giovane Angela era stato avvolto nella coperta e disposto sul letto della camera matrimoniale. Del cagnolino inizialmente non se ne accorse nessuno, i suoi resti furono notati solo dopo ulteriori sopralluoghi, la carcassa era stata gettata nella vasca insieme ai padroni. Dopo aver esaminato la scena del crimine gli investigatori ritennero che tutte e tre le vittime erano state colpite in tre ambienti diversi: la moglie in cucina, il marito nello studio e la figlia nella camera da letto. Il mostro di via Caravaggio rovistò nella borsetta di Angela e portò via la pistola di Santangelo oltre che gli oggetti con cui mise fine alla vita delle tre vittime.
All’epoca dei fatti furono rinvenute delle tracce sulla scena del delitto, ma era impossibile identificare quelle biologiche ed effettuare il test del dna era fantascienza per quei tempi. Sulla base delle dichiarazioni rilasciate da un testimone che riferì agli inquirenti di aver visto Zarrelli percorrere via Caravaggio alla guida dell’auto di Domenico Santangelo (mai ritrovata) e di altri elementi indiziari, tra cui una ferita sulla mano compatibile con quella di un morso del cane, Domenico Zarrelli fu arrestato il 25 marzo 1976 e condannato all’ergastolo in primo grado il 9 maggio 1978. Il nipote della vittima, un giovane appartenente a una famiglia di professionisti napoletani di cui all’epoca si parlò come di un tipo violento e alla continua ricerca di danaro, fu accusato di aver compiuto la strage in preda ad un raptus dopo essersi visto rifiutare la richiesta di un prestito di denaro dalla zia Gemma. Nell’appartamento fu rinvenuta tra l’altro una copia di una denuncia nei suoi confronti redatta ma mai depositata, che provava un rapporto conflittuale tra zia e nipote. Dopo la condanna in primo grado però Zarrelli fu assolto in appello, ma la Cassazione in un primo momento annullò la sentenza. Il processo si rifece ma fu spostato da Napoli a Potenza dove l’imputato venne nuovamente assolto e quella vola la Cassazione confermò. Durante la detenzione Domenico portò a termine gli studi di Giurisprudenza e, una volta tornato in libertà, chiese ed ottenne un risarcimento di un milione e 400mila euro da parte dello Stato.
Ad oggi, grazie ad una segnalazione anonima e alla struttura dedicata ai crimini irrisolti voluta dall’ex capo della Polizia, Antonio Manganelli, il procuratore aggiunto Giovanni Melillo ha potuto riaprire il caso nel 2012. Da alcuni reperti conservati fin dalla strage sono emerse tracce del dna di Zarrelli, in particolare su uno strofinaccio da cucina e nei mozziconi di alcune Gitane rinvenute nei pressi della finestra. Il 28 agosto 2014 viene diffusa la notizia secondo la quale le analisi scientifiche effettuate sui reperti avrebbero individuato il profilo di Domenico Zarrelli, processato, condannato, assolto e risarcito dallo Stato, ma probabilmente non del tutto innocente. Questo non lo sapremo mai. Escluso il primo indiziato altre due ipotesi di probabili indagati furono avanzate. La prima riguardava il rapporto sentimentale di Angela, di cui pare avesse un interesse un dipendente dell’INAM, dove la giovane lavorava, che provava gelosia per la relazione della vittima con il fidanzato. L’altra ipotesi invece è avvolta nel mistero e riguarda la persona che aveva preso in affitto il casolare di Gemma Cenname in provincia. L’inquilino infatti non pagava da qualche mese l’affitto per cui i due coniugi decisero di andare di persona a parlare con l’uomo, in quel luogo però trovarono una brandina, delle corde e delle manette per cui non si sa con esattezza se in quel casolare fosse stato ritrovato qualcosa che avrebbe poi condannato a morte la famiglia. Inoltre altri elementi avvalorarono questa ipotesi ovvero il fatto che la Cennamo avesse deposto in banca tutti i suoi beni per timore di brutte persone che frequentavano in quel periodo l’appartamento in via Caravaggio e una frase detta da Angela a lavoro. “Io morirò scannata” disse la giovane vittima ai colleghi riferendosi a un tale ingegnere, che poi dopo opportune indagini fu trovato. Non era un ingegnere l’uomo di cui probabilmente aveva timore la giovane Santangelo, ma una persona arrestata un mese dopo il delitto e che in carcere aveva rifiutato ripetutamente l’interrogatorio dei carabinieri. Le impronte digitali che furono ritrovate nell’appartamento di via Caravaggio sulla bottiglia, sul bicchiere e sulle sigarette non furono però mai confrontate con quelle dell’uomo.
Una volta appresa la notizia nel 2014 il legale e fratello di Domenico Zarrelli, Mario Zarrelli, ha dichiarato: “E’ indegno di uno Stato di diritto consentire la divulgazione di atti coperti da segreto istruttorio, la visione dei quali è stata negata al difensore di un imputato assolto con una sentenza irrevocabile, in modo da esporre alla gogna mediatica un innocente, senza consentirgli alcuna difesa“. Il legale di una nipote di Domenico Santangelo, Gennaro De Falco, ha invece rilasciato alcune dichiarazioni: “Mi pare che su questo punto non ci sia nulla da fare. In astratto si potrebbe procedere nei confronti di eventuali concorrenti, complici del delitto. Ma non mi sembra, dalle notizie che leggo, che la nuova inchiesta abbia fatto venire alla luce circostanze del genere. Ragionando sul piano giuridico, un nuovo processo penale sarebbe possibile se intervenisse la Corte Costituzionale ad annullare la norma, per irragionevolezza o violazione del principio di uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge. Oppure in base a un decreto legge. In tal caso si potrebbe procedere in quanto la norma del “ne bis in idem” è di carattere procedurale e non di diritto penale sostanziale. Si tratterebbe insomma di una modifica della procedura e quella nuova potrebbe essere applicata nel nostro caso“. Per quanto riguarda il risarcimento di Zarrrelli invece dichiara: “Sempre dalle notizia che ho letto, l’imputato assolto ottenne a titolo di indennizzo un milione e 400mila euro. Ecco credo che lo Stato possa promuovere, in presenza di elementi come il dolo o la colpa grave, un’azione di revocazione. Zarrelli finì in carcere sulla base di una serie di indizi. Ora viene fuori che era presente nell’appartamento. Nel corso degli interrogatori però non avrebbe mai riferito tale circostanza e ciò potrebbe far configurare appunto il comportamento improntato al dolo o alla colpa grave“.



