Quando è iniziata l’emergenza Coronavirus in Italia, molti connazionali si trovavano fuori dal nostro Paese, alcuni sono riusciti a rientrare, altri continuano a restare lontani, o perché obbligati o perché hanno preferito aspettare che la situazione rientrasse prima di rientrare.
Mariano, un lettore napoletano di Vocedinapoli.it, si trova a Cartagena in Colombia da gennaio e in una lettera inviataci ha raccontato com’è l’isolamento dall’altra parte del mondo, quali sono i problemi che la popolazione colombiana deve affrontare e quali sono i dubbi che attanagliano i tanti italiani che si trovano lì come lui.
“Quando a metà Gennaio sono arrivato a Cartagena de Indias, probabilmente la più bella città coloniale dell’America Latina, sono andato subito a salutare il mio amico Salvo Basile, napoletanissimo ma trapiantato qui da cinquanta anni, un personaggio unico, un’icona del cinema e della tv qui in Colombia, amatissimo da tutti per la sua affabilità ed impegno nel sociale oltre che conosciutissimo come attore, regista e produttore. Era come al solito sdraiato sulla sua amaca colorata e appena mi vede mi saluta così: “Ue Marià comm stajie, hai fatto bene a venirtene qua, vedrai il virus cinese che combinerà da in Italia!!”.
E’ pazzo pensai, che sarà mai sto virus cinese? Poi piano piano l’amara realtà è venuta fuori, noi italiani di Cartagena abbiamo vissuto con un po’ di apprensione per le nostre famiglie e i nostri amici l’evolversi del contagio in Italia nel mese di febbraio, ma per la verità eravamo abbastanza ottimisti, come farà ad arrivare sino a qua ci chiedevamo, siamo lontani per fortuna. Poi il 6 marzo la doccia fredda, un colombiano, di ritorno da Milano, viene trovato positivo al test Covid 19 effettuato a Bogotà, la capitale del Paese. Però noi a Cartagena siamo rimasti abbastanza tranquilli, è un caso ci dicevamo, ma, nonostante tutto, dopo una settimana si iniziava a vedere in giro per la città qualcuno con la mascherina, che esagerazione abbiamo pensato.
I casi a Bogotà aumentavano e noi iniziavamo a preoccuparci soprattutto perché Cartagena è una città con decine e decine di navi da crociera che attraccano, con migliaia di turisti che arrivano con voli da tutto il Paese e dal Mondo intero. Turisti che vogliono divertirsi, socializzare in spiaggia e negli isolotti raggiungibili con i tour di giorno, bere, ballare e fare baldoria per le strade del centro storico di notte, la movida di Cartagena è pura magia. Devono vietare l’attracco alle navi da crociera ci dicevamo e infatti proprio da una nave è arrivato il primo caso di Covid 19, una 85enne inglese guarita dopo una ventina di giorni in terapia intensiva. Era l’11 di Marzo, e dopo una settimana trovare mascherine e gel disinfettante nelle farmacie era già difficile. Il 16 di Marzo, con una decina di casi di Covid 19 accertati, il Sindaco di Cartagena decreta il primo “toque de queda”, il coprifuoco in italiano, dalle 18.00 di sera alle 4 dell’alba tutti in casa, spiagge, ristoranti, bar e locali chiusi, blocco di tutti i voli per gli stranieri e comunque quarantena obbligatoria di 14 giorni per chi arriva in città. La Sindaca di Bogotà fa lo stesso. Qui a Cartagena la situazione sanitaria non è facile, gli ospedali sono pochi, con scarse risorse di attrezzature e personale; Bogotà, dove si registrano quasi la metà dei contagi di tutta la Colombia, è una megalopoli con i tipici problemi di una sterminata città latinoamericana. L’economia colombiana, e quella di Cartagena in particolare, è in buona parte costituita da micro attività che vivono di turismo e di vendita al dettaglio di beni di ogni genere e da una marea di venditori che girano per strada guadagnandosi la giornata come possono. La situazione è resa ancora più grave dall’arrivo negli ultimi anni di tantissimi venezuelani, scappati dalla miseria del regime comunista di Maduro e rifugiatisi qui, che vivono alla giornata: molti di loro hanno un tetto sulla testa solo se riescono a guadagnare e pagare, giorno per giorno, una stanza in qualche pensione.
E poi c’e’ il turismo, bloccato dalla quarantena obbligatoria domiciliaria, come la chiamano qua, e dalla chiusura degli aeroporti e del trasporto autobus (qui i treni non ci sono) e di ogni attività ludica come bar, ristoranti, etc. Con questi presupposti la scelta del presidente della Repubblica, che qui è l’organo che decide, e dei sindaci non è facile: o permettere che il contagio vada avanti con strutture sanitarie insufficienti e male attrezzate e quindi con reali rischi di una catastrofe, o chiudere tutto lasciando però senza mezzi di sostentamento milioni di colombiani. La scelta è stata immediata, quasi senza alcun tentennamento. Tutto chiuso, voli aerei nazionali ed internazionali, collegamenti nel Paese a mezzo bus, negozi, spiagge, escursioni, ristoranti, bar, locali di ogni tipo e genere, centri commerciali, chiese; restano aperti solo mercati, supermercati e farmacie. E poi tutti a casa, è consentito uscire solo per andare al supermercato o in farmacia in base al numero finale del documento di riconoscimento e al sesso: in media ogni componente di una famiglia può uscire una volta alla settimana, ovviamente sempre e solo dalle 8 alle 16 del pomeriggio. Scattano un piano di aiuti per chi vive giorno per giorno e non può più uscire, un piano di finanziamenti agevolati per chi ha dovuto chiudere, si spera per tempi brevi, la propria attività, ma è duro per tutti andare avanti, anche per i piccoli imprenditori i canoni di locazione devono essere comunque pagati e ci sono gli stipendi dei dipendenti; il Paese è molto in affanno, qui non esistono ammortizzatori sociali come da noi, le tasse non sono uno scherzo, la vita è cara e il servizio sanitario te lo devi pagare. Molti restano a casa e rispettano il lockdown, molti escono per sopravvivere, molti escono perché il problema del virus non li riguarda e preferiscono bere e giocare a domino con gli amici, molti si affidano a Dio e basta, qui è normale vivere giorno per giorno senza pensare troppo al domani.
Per noi italiani che siamo rimasti è duro, le giornate sono eterne e comunque non siamo a casa nostra, chissà se è un bene o un male essere rimasti continuiamo a chiederci. E sino a quanto sarà meglio restare o saremo obbligati a restare? Qualcuno rimpiange di non essere partito alle prime avvisaglie, qualcuno pensa di tornare utilizzando i pochissimi voli umanitari organizzati da qualche Compagnia aerea tramite le Ambasciate, purtroppo sino all’ultimo non sai però se parti, come viaggi e soprattutto dove arrivi ! Ma per me, e per qualcun altro interessato alle statistiche, il problema principale è un altro: come evolve il contagio ? Credo che nessuno lo sappia, nemmeno il Presidente e il Ministro della salute. Di tamponi se ne fanno pochi, ci si può basare solo sul numero dei ricoverati negli Ospedali e nei reparti di Terapia intensiva che per la verità non è così catastrofico, ma chissà quanta gente se ne resta a casa con febbre e tosse, a contatto con familiari e amici e pensa o spera di avere solo un po’ di influenza. Il 27 comunque scadrà l’attuale lockdown, chissà che misure verranno prese, è stato anticipato un sì alla ripresa di alcune attività produttive ma un no a qualsiasi forma di “socializzazione”, peccato che nel turismo questa possibilità non esista: puoi aprire i ristoranti ma senza clienti che riaprono a fare ? Tutto dipenderà dai dati che, come ho detto, al momento non ci sono o sono, quantomeno, insufficienti. Ipotizzare il decorso di questa pandemia è impossibile, andiamo avanti, volenti o nolenti, aspettando il giorno prefissato per poter andar a fare la spesa e ringraziamo Dios e le illuminate decisioni delle Istituzioni che hanno per il momento evitato catastrofi tipo Ecuador e Brasile “Colombia es pasiòn!”.

