Ottanta indagati, undici richieste di custodia cautelare in carcere per impiego di denaro, beni o utilità di provenienza illecita, oltre al conseguente sequestro di decine di società, aziende e immobili riferibili agli stessi e ad altri 69 indagati che avrebbero coadiuvato i primi nell’intestazione fittizia di beni per conto del clan Amato-Pagano.
Richieste che però sono quasi state interamente rigettate dal gip. Quest’ultimo ha applicato solo la misura cautelare del divieto di dimora a Napoli e provincia nei confronti di Gennaro Bove, consigliere d’opposizione del comune di Mugnano di Napoli, fortino del clan Amato-Pagano, per il quale si ipotizza l’associazione di tipo mafioso e di far parte del clan degli Scissionisti in merito alla gestione delle estorsioni a Mugnano e nei contatti con
imprenditori, commercianti ed esponenti delle amministrazioni locali. In pratica – secondo i racconti dei pentiti – Bove indicava al clan le ditte alle quali venivano affidati i lavori per andare poi a chiedere “l’offerta per i detenuti”. Il gip ha poi disposto poi un decreto di sequestro preventivo a carico di altri indagati, con sigilli a 18 immobili (appartamenti, ville e terreni tra Mugnano, Quarto e Melito) e di una società di costruzioni (Pa.Mar. srl) con sede a Giugliano, per un valore di circa 5 milioni e mezzo.
Richieste rigettate dal gip che non ha ritenuto sufficienti le prove presentate dalla procura partenopea che ha già preannunciato ricorso al Riesame. Prove raccolte soprattutto grazie alle numerose dichiarazioni dei collaboratori di giustizia oltre agli accertamenti patrimoniali eseguiti dalla polizia giudiziaria, nell’inchiesta incentrata sulla condotta di reimpiego dei proventi derivanti dai traffici illeciti del clan Amato-Pagano da parte degli imprenditori fiduciari Mario Manco e Mario Moxedano.
Prove ritenute insufficienti dal gip che sottolinea come “nessuno dei pentiti risulta essere stato direttamente coinvolto, neanche in parte, nelle attività di reimpiego e di reinvestimento di denaro illecito oggetto di contestazione; gli stessi si limitano dunque a riferire circostanze apprese da altri soggetti, talvolta riferendo il contenuto di esternazioni carpite in termini estremamente generici o in modo fugace“.
LA FIGURA DI MARIO MOXEDANO – Arrestato il 19 maggio del 2015 insieme ad altre 49 persone nell’ambito dell’inchiesta ‘Dirty Soccer’ che svelò un giro di scommesse, e relative partite truccate, nei campionati di serie D e Lega Pro, “grazie” alla regia della ‘ndrangheta, Moxedano è tornato in libertà dopo tre mesi passati tra carcere e domiciliari. Ex dirigente, per pochi mesi, del Calcio Napoli (1994), Moxedano ha legato il suo ruolo di imprenditore al mondo del calcio guidando diverse società di Napoli e provincia. Dal Savoia (con il quale raggiunse la serie B) alla Turris e alla Neapolis che giocava proprio nello stadio “Vallefuoco” del comune di Mugnano.
Secondo la procura partenopea, Moxedano e la sua famiglia, che gestiscono anche diverse sale bingo tra Mugnano, Fuorigrotta e Pompei, avrebbero reimpiegato fondi di provenienza illecita degli Amato-Pagano. Circostanza questa supportata dalle dichiarazioni di diversi pentiti che però non sono bastate secondo il Gip per disporre un decreto di sequestro beni e accogliere la misura cautelare nei confronti del presidente-imprenditore e di alcuni suoi familiari.
A ricostruire i rapporti tra Mario Moxedano e il clan Amato-Pagano è il pentito Carmine Cerrato (classe 1971), detto Tekendò, cugino di Giovanna, moglie del boss Cesare Pagano, arrestato nel 2010 e attualmente sottoposto al regime di 41bis. Tekendò, uomo di fiducia di Cesarino durante il periodo di latitanza, ha iniziato la sua collaborazione nel 2014.
In un interrogatorio del 26 maggio 2014, Cerrato riferisce alcune circostanze relative al periodo di latitanza di Cesare Pagano e ai soldi che ricevevano mensilmente da un ristorante di Mugnano. Soldi che – secondo Cerrato – era lo stesso Moxedano che ritirava. “I gestori del ristorante versano a mia sorella 12 mila euro al mese, come ho già detto, ma materialmente li ritira Mario Moxedano che poi li dà a noi”.
Moxedano, battezzato da Cerrato come “il costruttore più forte di Mugnano” che deve “la sua fortuna all’arrivo a Mugnano degli Amato-Pagano”, avrebbe realizzato diversi lavori per conto del boss. “Nell’ottobre-novembre del 2009 – spiega il pentito -, ho accompagnato Mario Moxedano a Quarto perché doveva far vedere a Cesare dei progetti di costruzioni da farsi a Mugnano; Moxedano, propose a Cesare se voleva entrare in società, perché aveva bisogno di liquidi. Cesare rispose che essendo latitante non gli conveniva fare questa operazione, ma gli prestò 2 milioni di euro, sempre all’1% al mese”.
“Sempre”, perché l’anno prima, il boss Cesare, prima della latitanza, aveva prestato a Moxedano – secondo il racconto di Carmine Cerrato – “un milione di euro, all’1% di interessi al mese, pagava cioè 10 mila euro al mese”. Soldi che Moxedano avrebbe utilizzato per costruire un nuovo Bingo. In totale sarebbe dunque tre i milioni di euro che il clan avrebbe dato all’imprenditore, serviti a costruire, tra le altre cose, “la pista go-kart dietro al Bingo di Mugnano”, “la sala slot a Fuorigrotta”.
Cerrato racconta poi di un piccolo contrattino (ovviamente dall’esclusivo valore in ambito criminale) dove “Moxedano si impegnava a saldare la somma nel giro di un anno, pagando anche i relativi interessi”. Impegni che l’imprenditore avrebbe effettivamente mantenuto negli anni nonostante alcuni periodi di difficoltà dove il clan alzava la voce e minacciava addirittura di ucciderlo. “Gli demmo 2-3 mesi di tempo – racconta Cerrato –, minacciando un’azione estrema nei suoi confronti, sottintendendo che lo avremmo ucciso, cosa che in realtà non avremmo mai fatto perché volevamo i soldi, di certo lo avremmo picchiato”.
Nonostante sia lecito interrogarsi sul patrimonio accumulato negli anni della famiglia Moxedano- osserva il Gip -, con l’investimento effettuato tra il 1993 e il 1995, grazie in parte a un’ipoteca su alcuni terreni lasciati in eredità dal padre, per la costruzione del complesso residenziale “Mugnano 2000“, investimento incompatibile con i redditi percepiti e dichiarati da Moxedano (fino al 1996 dipendente del comune di Napoli), “deve prendersi atto che il quadro complessivo che ne scaturisce è confuso e lacunoso nel dare contezza della sussistenza dei presupposti essenziali per l’applicazione delle misure personali e reali richieste”.
Per il gip Morra – che non mette in discussione i contatti tra l’imprenditore e i vertici del clan Amato-Pagano e negli anni ’90 quelli con i Di Lauro – “Moxedano ottenendo i citati prestiti dai capi dell’organizzazione criminale, avrebbe poi effettuato investimenti in attività economiche e produttive per conto proprio e non conto del clan, con il quale si sarebbe semplicemente impegnato a restituire il capitale ricevuto e interessi pari al 12% su base annua”.
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