Il delitto è stato crudele. La colpa tra le peggiori: uccidere una persona. Ma se la Costituzione con l’Articolo 27 afferma che, “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato“, la giustizia nei confronti di Belgiorno Giosuè si è trasformata in ‘tortura’.
Ricapitoliamo un pò la vicenda. Lo scorso aprile Belgiorno insieme a Emanuele Baiano e Mariano Riccio, sono stati condannati a 20 anni di carcere. L’accusa è stata di omicidio. La vittima è Antonino D’Andò ammazzato a causa di un’epurazione interna al clan Amato-Pagano.
Nella vicenda sono coinvolti anche Ciro Scognamiglio e Mario Ferraiuolo. Tutti insieme, con Riccio mandante dell’agguato e gli altri esecutori materiali dell’assassinio, a marzo rivelarono in Tribunale di essere colpevoli e di conoscere il luogo dove erano sotterrati i resti di D’Andò.
Sempre ad aprile il Tribunale del Riesame, Decima Sezione, aveva concesso gli arresti domiciliari a Belgiorno. Quest’ultimo è affetto da una grave patologia, la Sclerosi laterale amiotrofica (Sla), malattia che lo rende di fatto incompatibile con il regime carcerario.
Ma Belgiorno, una volta che la condanna è diventata definitiva, è stato portato di nuovo in carcere (a Secondigliano, ndr) al regime di detenzione ordinaria. “È la morte dello Stato di Diritto – ha affermato l’avvocato difensore Raffaele Chiummariello – in pratica il mio assistito è stato sequestrato. Con la liberazione anticipata Belgiorno potrebbe essere scarcerato ma il Magistrato di Sorveglianza ha fissato l’udienza ad ottobre“.
Il legale ha anche depositato l’ordinanza che dichiara l’incompatibilità con il regime carcerario e l’urgenza del caso motivata da ragioni cliniche, “ma per parlare con il Magistrato bisogna inviare una mail e attendere che sia fissato un appuntamento. Perché la giustizia è burocrazia e non più certezza della pena e del diritto – ha dichiarato Chiummariello – l’udienza fissata per luglio ci sarà ad ottobre e intanto a settembre Belgiorno terminerebbe di espiare la pena“.
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