“Fate morire mio padre a casa, tra l’affetto dei suoi familiari”. E’ l’appello disperato di Annalisa Rigotti, figlia di Ciro, che sta scontando nove anni di droga per spaccio di droga dopo l’arresto, avvenuto nel giugno del 2016, nell’ambito dell’operazione Delenda che vide i carabinieri di Napoli smantellare il clan D’Amico di Ponticelli.
Ciro Rigotti ha 62 anni e nei mesi scorsi ha iniziato ad accusare dei dolori a un orecchio nella cella del carcere di Poggioreale. Col passare dei giorni la situazione si è aggravata e, dopo un’iniziale diagnosi (“un polipetto benigno”), la scorsa settimana è arrivata la mazzata per i familiari. “Il 13 luglio gli è stata prenotata la Tac – spiega la figlia, anche lei condannata per vicende relative al clan del rione Conocal – che è stata effettuata solo la sorsa settimana quando il cancro si era già esteso”. Circostanza che ha portato gli stessi familiari a lamentare l’assenza di cure adeguate all’interno del penitenziario partenopeo.
Rigotti è un malato terminale, attualmente ricoverato nel padiglione Palermo dell’ospedale Cardarelli di Napoli. I familiari chiedono, con la collaborazione di Pietro Ioia, attivista per i diritti dei detenuti, la concessione degli arresti domiciliari per riportarlo a casa e accompagnarlo, circondato dall’affetto dei suoi cari, in quest’ultima fase della sua vita. “Non possiamo nemmeno toccarlo in questi giorni. Possiamo solo vederlo il giovedì, così come accade in carcere per i colloqui con i familiari”.
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