E’ stato arrestato quasi un anno fa. Era il 13 marzo 2017 quando finì in carcere perché gravemente indiziato dei reati di detenzione e porto abusivo di arma nell’ambito delle indagini sulla morte di Genny Cesarano, il 17enne ucciso il 6 settembre 2015 durante una stesa in piazza San Vincenzo, nel Rione Sanità, realizzata dai “kamikaze” del clan Lo Russo, condannati all’ergastolo perché “era un birillo da buttare giù”.
Raffaele Bacio Terracino, detto “Tartarella”, oggi ha 22 anni e, dopo nove mesi nel carcere di Poggioreale, lavora alle catacombe di San Gennaro come misura alternativa alla detenzione. Fra qualche mese avrà l’udienza in tribunale dove proverà a difendersi dall’accusa della procura di Napoli arrivata al giovane dal cognome pesante (è nipote di un pregiudicato di spicco del Rione Sanità ammazzato in un agguato nel 2009) grazie alle attività di intercettazione ambientale svolte nell’immediatezza, ed in particolare grazie ai dialoghi registrati all’interno della autovettura in uso agli amici della vittima, soggetti che – alla stregua delle indagini successivamente espletate – sono stati indagati del delitto di false informazioni al Pubblico Ministero.
Raffaele in un lungo post pubblicato sulla pagina Facebook delle catacombe di San Gennaro, racconta la sua storia sin da quando era piccolo. Dall’arresto del padre, avvenuto quando aveva 7 anni, ai sacrifici fatti negli anni successivi per portare a casa uno stipendio, alla morte del padre avvenuta per overdose negli anni scorsi. Poi quella maledetta notte del 6 settembre. Raffaele era in piazza con Genny e altri amici quando arrivarono gli uomini dei “Capitoni”. Spari all’impazzata e la fuga sopra, nella propria abitazione, da dove non sarebbe uscito per quasi un mese.
Poi l’intercettazione che lo incastra raccolta dagli investigatori nell’auto di un suo amico, ascoltato qualche giorno prima in Procura. Il 22enne, nell’ottobre del 2015, si lascia andare a un commento che attira subito l’attenzione degli inquirenti. “Se incominciavo a sparare anche io….“. Poi altre frasi dubbie che rimanderebbero al possesso di armi da fuoco. “Te la scendo quella cosa?” dice riferendosi all’amico, aggiungendo poi: “Ne tengo due… ho la sette… e la nove…“. Parole queste riconducibili probabilmente al calibro dell’arma. “L’arma – spiega Raffaele Bacio Terracino – non l’hanno trovata, la pistola che esiste solo nelle parole di chi trema e che non conosce nulla di diverso per apparire più forte”.
Questo il messaggio integrale pubblicato sulla pagina Facebook delle “Catacombe di Napoli”:
Una notte di 15 anni fa ho smesso di parlare.
Hanno preso mio padre nel sonno, dormivo accanto a lui.
Un’altra condanna per un altro reato, l’ultimo di un’infinita serie che lo ha tenuto lontano per 30 anni.
Ricordo il rumore dei passi e le grida, mio padre che si alza di scatto e sparisce nella notte.
Mia madre piange.
Avevo quattro anni e ho smesso di parlare.
Nella mia testa tutto aveva un senso ed un ordine ma nulla si tramutava in parole.
Mi sembravano pericolose e scomode.
Il silenzio era l’unica cosa che potevo controllare.
L’unica, nell’infinito caos che mi circondava.Mio padre non c’è, mia madre non lavora, mia sorella è piccola.
Qualcuno ci deve pensare, qualcuno deve farcela.
Comincio a 12 anni, lavoro al bar, in pizzeria, in un negozio.
A testa bassa, lentamente.
Con un cognome che mi pesa in testa come un macigno, lo sanno tutti chi è mio padre, lo sanno tutti a chi appartengo.
Il sangue, nella mia terra, non si lava via.Ci provano a farmi parlare, le parole non escono.
Rotolano, si incastrano, mi franano fra i denti.
Balbetto, mi blocco.
Sono stanco, come un maratoneta in una corsa infinita.
Controllo il silenzio ma non controllo il rumore.
E quello che non controllo finisce per controllare me.Mio padre esce, dopo una condanna lunga e pesante come una catena di metallo.
Torna a casa.
Mia mamma piange.
Mia sorella non lo conosce.
Respiro lentamente, è sangue mio, mi dico, devo dargli una possibilità.
Lo trovo steso sul letto, il giorno di Natale.
La testa all’indietro, le braccia lunghe.
Ha ricominciato a farsi, eroina e metadone.
Lo caccio via, le parole escono forti come un urlo antico, è la pancia che parla.
Mia sorella non deve vederlo così, mia madre non può vederlo così.
Vai via, via.
Sangue, sangue mio.
Via.Due giorni dopo lo troviamo morto sotto la metro di piazza Cavour.
Sangue, sangue mio.
Come si fa a lavarti via?Negli stessi giorni, nelle stesse ore, mia madre finisce in ospedale.
Ha un cancro alla gola, maligno e crudele.
Entra in sala operatoria.
Salva lei, salva il mio sangue, non cancellarlo via.
Seppellisco mio padre da solo, mamma è all’ospedale.
L’intervento è andato bene, mi dicono i medici, siete fortunati.
Rido, di questa parola nuova che non conosco e non mi appartiene.È notte e tira un vento caldo.
È settembre, ottobre è ancora lontano e tutto sembra ancora possibile.
Sono in piazza alla sanità, molti volti accanto a me.
Cadono veloci e improvvisi, 36 proiettili si abbattono su di noi.
Sembra una pioggia di sabbia e di lacrime.
Corrono tutti, qualcuno cade.
Genny, davanti a me, crolla sotto una raffica immobile.
Il rumore, ancora una volta, prende il sopravvento.
Corro veloce, come non ho mai corso in vita mia.
Salgo a casa e prendo delle pillole per dormire.
Non scendo per un mese, non metto piede neanche ai funerali.
La paura mi divora la pancia e mi incatena i pensieri.
Ho bisogno di silenzio e di nessuna parola.Sono in macchina, qualche mese dopo.
Un amico mi chiede di quella sera.
“Se avessi cacciato la pistola io, gli dico, sarebbe andata diversamente”
Lo dico perché è la cosa giusta da dire, quando cresci in una terra di sangue e lacrime.
Lo dico per cercare rispetto, lo dico per sembrare forte.
Lo dico perché le parole mi scappano veloci e io l’ho detto che preferisco il silenzio.Da quella frase in quella macchina passa un anno.
Arrivano la sera a casa, mi portano in questura.
Possesso di armi da fuoco, questa è l’accusa.
In quella macchina c’era un microfono e la domanda non era poi casuale.
L’arma non l’hanno trovata, la pistola che esiste solo nelle parole di chi trema e che non conosce nulla di diverso per apparire più forte.
Mi chiamano per cognome, sappiamo a chi appartieni, mi dicono.
Eccola qui, la macchia del sangue.
Non va via, non sparisce.Nove mesi a Poggioreale per un reato che non ho commesso e non ho capito.
Mi accusano di avere un ruolo nell’omicidio di Genny.
Perché non sei sceso di casa?
Non eri ai funerali e non eri a testimoniare?
Sappiamo a chi appartieni, mi dicono.Pochi giorni prima dell’arresto è nato mio figlio e ho scoperto la potenza dell’essere padre.
Prendermi cura di lui e della mia compagna ha dato senso ai giorni del dolore e da senso al mio essere qui.
È per loro e grazie a loro che sono qui e stringo i denti.Ora lavoro alle catacombe di San Gennaro come misura alternativa al carcere e fra qualche mese ho un’udienza in tribunale.
Proverò a spiegare la macchia del sangue e la colpa delle parole veloci.
Proprio io, che non ho mai voluto parlare.
Sapevo che mi avrebbero tradito prima o poi.
Sapevo che forse avrei dovuto stare zitto.Mi chiamo Raffaele, ho 22 anni e questa è la mia storia.
Testo di Chiara Nocchetti
Foto di Giovanni Maraviglia
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