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La storia di Salvatore Squillace, ucciso per errore dalla camorra mentre era al bar con gli amici

Era una domenica mattina come tante. Salvatore, 28 anni, era solito alzarsi tardi, verso mezzogiorno. Dopo una settimana di lavoro, per lui che faceva l’imbianchino insieme a papà Armando, la domenica era l’unico giorno dove non suonava la sveglia.

Quella mattina, era il 10 giugno del 1984, Salvatore Squillace si alzò presto lo stesso perché aveva un appuntamento con gli amici fuori al solito bar di piazza Garibaldi a Marano di Napoli, a poche decine di metri da dove abitava. Era lì fuori a chiacchierare dopo un caffè quando un commando armato, composto da almeno tre auto, passò lì fuori sparando all’impazzata. Era in fuga dopo aver teso un agguato alla fortezza della famiglia Nuvoletta, storico clan di camorra affiliato alla mafia siciliana di Totò Riina.

Erano almeno una decina i killer agli ordini di Antonio Bardellino (a capo della Nuova Famiglia insieme a Carmine Alfieri e Pasquale Galasso) che armati di mitra, pistole e fucili, e con il volto coperto da parrucche, barba e baffi finti, si presentarono nella masseria di Poggio Vallesana e uccisero “solo” il fratello dei boss Lorenzo e Angelo, Ciro Nuvoletta, 38 anni, finito con un colpo in pieno volto dallo stesso Bardellino.

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Durante la fuga, il commando di killer venne inseguito dagli uomini dei Nuvoletta. Ne nacque un conflitto a fuoco che durò per centinaia di metri incurante delle persone che quella mattina (era pur sempre domenica) si trovavano in strada.

Fu un proiettile vagante a colpire alla tempia Salvatore Squillace, 28 anni, il più alto (1.78) della sua comitiva che non fece in tempo a buttarsi a terra per ripararsi dalla pioggia di piombo. Fu soccorso dagli amici e portato in auto al Cardarelli. Per i medici però non c’era nulla da fare. Salvatore morì dopo sei giorni, vittima innocente della camorra.

Nel libro “Al di là della notte” di Raffaele Sardo (Tullio Pironti editore), Concetta, sorella di Salvatore, racconta il dolore dei familiari, “i natali senza albero”, “i miei figli che non vogliono più vedere un film di mafia”, “i miei genitori che hanno più vissuto da quel giorno”.

“Mia mamma dopo i funerali si chiuse. Il dolore prese il sopravvento. Non voleva vedere più nessuno. Chiudeva le tapparelle, chiudeva la luce. Stava sempre al buio. Per tre anni rimase chiusa in casa. Come se non esistesse più niente e nessuno. Mio padre, allo stesso modo, non aveva più voglia di vivere. Lui poi con Salvatore ci stava anche sul lavoro. Un colpo durissimo. Da quel giorno non è mai stato più lo stesso.
All’ospedale, in quei giorni tremendi, vennero a trovarlo tutti gli amici. E ne aveva tantissimi. Salvatore era un ragazzo semplice. E come tutti i giovani della sua età, amava la vita. Spendeva molto del suo tempo libero aiutando le persone in difficoltà. Era una delle cose che noi non sapevamo. Due ragazzi in particolare erano aiutati da Salvatore, Patrizia e Lello. Erano due ragazzi disabili. Mio fratello frequentava gli ambienti cattolici e alcuni dei preti che lui conosceva, padri francescani, ci sono stati molto vicini anche dopo la sua morte”.

Mio padre è morto per il dolore a ottantuno anni. A casa dei miei genitori non c’era più un giorno di festa. Non esistevano più le domeniche. A Natale era proibito anche fare l’albero. Mia mamma non ne voleva sapere. Ripeteva sempre: “Ormai sono un vegetale. Non vivo più. Me l’hanno strappato negli anni più belli. Non me lo dovevano fare. Non me lo dovevano fare”. Salvatore era il primo figlio e anche maschio. E mia mamma stravedeva per lui. Per anni ha portato il lutto. Poi, man mano che passava il tempo, proprio perché c’erano i miei figli, mia madre si è aperta un po’. Ma sono sopraggiunte le malattie anche per lei. Tra ischemie e altre patologie sta molto male. Non riesce più a parlare. Non si è mai ripresa da quel 10 agosto del 1984. È assente, vuota. E ogni giorno che passa è sempre la stessa storia. Sempre più assente. Ora le siamo vicini io e mia sorella Nunzia. Ma mia madre, che ha settantasette anni, è spenta dentro. Vive con me a casa mia. La casa dove abitavamo l’abbiamo venduta. Siamo stati tutti d’accordo a cederla. Troppi ricordi, troppe cose che ricordavano Salvatore. Nessuna di noi l’ha voluta. Ho chiesto anche ai miei figli e nessuno è voluto andarci.

I miei ragazzi sono ancora traumatizzati. Addirittura non riescono a vedere i film di mafia o camorra. Gli ricordano la morte dello zio Salvatore”. Sulla tomba di Salvatore, nel cimitero di Marano, ci sono sempre fiori. «Sono gli amici che li portano”, dice Concetta sospirando. “Spesso vicino alla tomba ci trovo un suo amico, Gaetano, uno dei più intimi di Salvatore. Ci va con la sua bambina a trovarlo. Gaetano ha il rimorso di non averlo salvato, perché quella mattina voleva portarlo con lui a comprare del pesce. Salvatore non ci volle andare. “Se avessi insistito”, dice sempre, “forse Salvatore sarebbe ancora vivo”. Ma Gaetano non è il solo che si ricorda di Salvatore. Sono in tanti gli amici che passano al cimitero per una preghiera. E poi c’è una signora che gli pulisce sempre la tomba. “È la mamma di Lello, il ragazzo disabile che Salvatore aiutava. Ora è morto. “Perché viene a pulire la tomba di mio fratello?”, le ho chiesto quando l’ho trovata lì. “Salvatore trattava mio figlio Lello come un fratello. E io non me lo dimentico”.

 

redazione

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