Le fontane delle città italiane sono testimonianza di tempi ormai passati, in cui l’acqua non si comprava al supermercato. L’acqua potabile veniva raccolta direttamente dalle fontane, e portata a casa in bottiglioni e damigiane. Ci sono a Napoli, però, quattro fontane speciali, nuove, del 2000, che dovrebbero essere in grado di fornire alla cittadinanza un’acqua fuori dalla norma: l’acqua delle mummare.
Si trovano a pochi passi dalla fermata di Piazza Castello, punto di riferimento per ogni turista che voglia cominciare un tour completo per le bellezze di Napoli, vicino al molo Beverello. Più precisamente in Via Riccardo Filangieri Candida Gonzava, dove ancora si possono ammirare le mura perimetrali del Palazzo Reale. Chi le ha viste, probabilmente si starà chiedendo: “Nuove, quelle?”
Ebbene si, nuove. L’ennesimo fiore all’occhiello appassito, che nelle intenzioni doveva riportare a Napoli una delle bevande preferite dei napoletani di un tempo, l’acqua zurfegna, altrimenti detta “delle mummare”, e nei fatti finisce per tradursi in una fontana ingabbiata, riempita di rifiuti, in evidente stato di dissesto, estetico e funzionale. E dire che la zona era stata resa pedonale, nel tentativo di riqualificarla con panchine, fioriere, e opuscoli informativi.
Quegli opuscoli riportavano la meravigliosa e secolare storia dell’acqua zurfegna, detta “delle mummare” per ricordare le classiche anfore di creta con due manici, coperte da un tappo di sughero, utilizzate per prelevare l’acqua alla fonte e trasportarla senza rischio di comprometterne le qualità nei centri di distribuzione di cui Napoli traboccava.
La fonte nasceva dal monte Echia, veniva raccolta nel pozzo artesiano di Palazzo Reale (costruito dall’ingegnere Cangiano nel 1850, su preciso ordine di Ferdinando II), e defluiva fino a Via Chiatamone, al numero 50. Oggi, lì, a memoria di quei tempi in cui chiunque poteva dissetarsi, è posta una lapide commemorativa.
Perché l’acqua delle mummare era così speciale? Il segreto di quel gusto straordinario e delle sue proprietà stanno nella provenienza vulcanica, che oltre a rendere l’acqua minerale gassata, le conferivano sali minerali, bicarbonato di sodio, cloruri, calcio, magnesio e ferro. E dulcis in fundo, l’acqua zurfegna era microbatteriologicamente pura.
Tutte queste peculiarità contribuivano a fare dell’acqua delle mummare un vero e proprio toccasana per chi soffriva di anemia. L’importante era conservarla, per l’appunto, nelle mummare: l’argilla con cui erano costruite era la migliore garanzia che le proprietà benefiche dell’acqua si conservassero anche a distanza di giorni.
Vero è, d’altro canto, che l’acqua di Chiatamone era assolutamente controindicata per chi soffriva di forme gravi di infiammazione accompagnate o meno a febbri alte, di tubercolosi, ipertensione, cardiopatia, tumore. In questi casi i medici sconsigliavano vivamente l’assunzione dell’acqua zurfegna.
Difficilmente però si resisteva alla tentazione di comprare un bicchiere di acqua delle mummare da una delle numerosissime banche d’acqua disseminate per Napoli. Si trattava di chioschi che risparmiavano al popolo partenopeo la fatica di prelevare l’acqua da pozzi e sorgenti, distribuendola oltretutto fredda, o nelle varianti insaporite con scorza ‘arancia o limone, o con l’aggiunta di un po’ di bicarbonato. Un’antesignana della gazzosa.
C’era poi il risvolto folkloristico (o commerciale, a seconda dei punti di vista) dell’acquaiolo, un esuberante venditore d’acqua che urlava a squarciagola tutta la bontà del suo prodotto: “Venite ‘a rinfrescarvi, tengo l’acqua do’ Chiatamone, c’arance e limoni ‘e Surriento; chest’ è acqua ‘e paradiso, è acqua ‘e mummera; ‘na veppet’ è chest’ acqua te cunzola; vih! che freschezza”.
La figura dell’acquaiolo doveva essere particolarmente cara anche a Franceschiello, l’ultimo Re della dinastia borbonica a Napoli. Mentre si trovava in esilio a Parigi, insieme a sua moglie Maria Sofia, il re chiese a un ministro napoletano in visita se fosse stato possibile recapitargli un ricordo di Napoli, la capitale del Regno che aveva avuto l’onore di amministrare.
Il ministro lo accontentò, chiedendo allo scultore Vincenzo Gemito di realizzare una statuetta in argento fuso, raffigurante un acquaiolo, nell’atto di reclamizzare la sua acqua, con tanto di mummara sotto al braccio, e ummarella nella mano opposta. Quella statua tanto cara a Franceschiello fa parte ora della collezione conservata nella Galleria Nazionale d’Arte Moderna.
Nel 1973, con il colera a Napoli, si preferì chiudere la fonte, per tentare di limitare un pericolosissimo veicolo di contagio. Ci fu chi approfittò della situazione per appropriarsi del monopolio di quella fonte. L’acqua fu restituita ai napoletani nel 2000, e da allora, purtroppo, l’acqua delle mummare è affogata nuovamente.
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