La Rivoluzione Francese porta sempre con sé, nell’immaginario di molti, quell’afflato romantico che avvolge gli eroi della libertà e dei valori ad essa complementari. Così avvenne anche nell’eco partenopea di quella Rivoluzione, la Repubblica Napolitana del 1799. In questo caso Napoli individuò la sua eroina in Luisa Fortunata de Molina, detta Sanfelice. Un personaggio talmente amato dalle folle, che terminata l’esperienza repubblicana, continuò ad albergare nei cuori di tutti, fino ed oltre la sua tragica morte.
Rimase particolarmente colpito dalla sua storia Alexandre Dumas. La immortalò infatti nel suo romanzo di 1700 pagine: “La Sanfelice”, una storia di passione, eroismo, e morte, ambientata negli anni movimentati della Napoli giacobina. Nel romanzo di Dumas Luisa è una vedova che si spende politicamente per liberare la sua città dal giogo borbonico. Luisa Sanfelice era davvero questa? C’è molto d’altro, o molto meno di questo, a seconda di come si vogliano vedere le cose, nei documenti storici che parlano di lei.
Luisa è una ragazza di bell’aspetto quando, giovanissima, sposa Don Andrea Sanfelice. La loro unione è sin dagli inizi all’insegna dell’eccesso. Nonostante i tre figli, la coppia si dà alla vita mondana in maniera smodata, molto oltre le reali possibilità economiche. Non a caso nel giro di pochissimo tempo Andrea e Luisa si ritrovano ricoperti di debiti.
Nel 1787 il re Ferdinando IV prova ad aiutarli affidando il loro patrimonio ad un amministratore. I tre figli vengono spediti in collegio, mentre i due sono costretti a vivere in maniera più morigerata, lontani dalla società aristocratica, in economia di mezzi, con l’obiettivo di recuperare denaro per poter pagare i creditori.
La soluzione non si rivela efficace. I due coniugi continuano a vivere sopra le righe, indisponendo il re fino al punto da obbligarlo ad una nuova imposizione: Andrea e Luisa verranno divisi, l’uno in un convento di Nola, l’altra nel Conservatorio di Santa Sofia. Tre anni trascorrono, prima che Don Andrea fugga dal convento, rapisca sua moglie, e la riporti a Napoli.
Dopo qualche anno Napoli vive la sua parentesi repubblicana. Siamo nel 1799, e la rivoluzione riesce lì dove il re aveva fallito: separare Luisa da suo marito. Don Andrea infatti s’è dato per disperso, probabilmente nel tentativo di sfuggire ai suoi creditori, rinvigoriti dalle disposizioni repubblicane che abolirono dall’oggi al domani i privilegi riservati agli aristocratici.
Luisa Sanfelice è costretta a vivere presso la Duchessa di Capuano, una sua vecchia amica, nel Palazzo Mastelloni. Ma le manca quell’atmosfera fatta di feste e banchetti, immersa nella quale aveva trascorso gli anni più belli e dissoluti della sua vita. Comincia così a frequentare quei nobiluomini che non disdegnavano affatto la sua compagnia.
Tre in particolare. Di Gerardo Baccher, banchiere di fede borbonica, accettava volentieri la corte ma non si concedeva come Gerardo avrebbe desiderato. Vincenzo Cuoco, lo storiografo che per anni era stato amico di famiglia nonché amministratore unico dei beni di Don Andrea. Ed infine Ferdinando Ferri, un avvocato che con i giacobini sembrava aver trovato la sua dimensione ideale.
Gestire tre uomini quando si è il vertice verso cui tutti e tre convergono, è già operazione complessa di per sé. Se poi i tre sono rappresentanti di aree politiche diverse, in un periodo in cui la politica divideva sanguinosamente Napoli tra filo-repubblicani e nostalgici della corona borbonica, il mix diventa esplosivo. E la situazione, difatti, deflagrò improvvisamente.
Durante uno dei suoi incontro con il Baccher, Luisa apprende che i borbonici si stavano riorganizzando sotto la direzione della famiglia di banchieri, per scacciare i francesi e riprendersi Napoli. Un falso attacco via mare avrebbe dovuto attirare al porto le truppe francesi, lasciando sguarnita la città, che sarebbe stata riconquistata con l’aiuto del popolo.
I Baccher avevano predisposto il piano in maniera che i loro amici e gli amici dei Borboni sarebbero stati preservati dalla tabula rasa: era pronto per loro un lasciapassare, un salvacondotto cartaceo di riconoscimento. A Luisa viene consegnato uno di questi lasciapassare dal suo ricco spasimante Gerardo. Mai scelta si rivelò più sbagliata.
Congedato il generoso organizzatore della congiura, Luisa consegna il proprio biglietto per la salvezza a Fernando Ferri, rinunciando di fatto all’unica forma di cautela contro la violenza controrivoluzionaria che di lì a breve si sarebbe scatenata per le strade di Napoli. Fernando Ferri a sua volta consegna il salvacondotto nelle mani dei giacobini.
Immediata la reazione dei repubblicani, i quali prelevano Luisa e la interrogano per sapere chi le avesse consegnato quel biglietto. Luisa mantiene tenacemente il silenzio, nel tentativo di proteggere il suo spasimante borbonico. Ma è tutto inutile. Il salvacondotto recava chiari i contrassegni inequivocabili dei Bacchet. Questi ultimi vengono arrestati, insieme agli altri congiurati, e rinchiusi a Castel Nuovo.
Il 13 Aprile la Sanfelice viene osannata dalla stampa repubblicana in un articolo di Eleonora Pimentel Fonseca, che fa di lei un simbolo del patriottismo repubblicano, e propone il suo nome venga eternato come massimo esempio di fedeltà alla causa. Una causa che in realtà Luisa s’era sempre tenuta ben lontana dallo sponsorizzare.
Un particolare però non torna. Nell’articolo non viene fatto il nome di Ferdinando Ferri, ma quello di Vincenzo Cuoco. Evidentemente nella deposizione Luisa evitò di fare il nome del Ferri, per non dover ammettere di avere un amante segreto (il Ferri). Più facile spiegare un atto di generosità speso in favore di un vecchio amico di famiglia (il Cuoco), amante anch’egli, in realtà.
Ma il ritorno dei Borboni era stato solo rimandato. Il re Ferdinando IV riuscì dopo poche settimane a riconquistare Napoli, mettendola sotto assedio fino al 13 giugno. I Baccher, ancora detenuti dai repubblicani, vengono giustiziati con un processo sommario dalla commissione rivoluzionaria, poco prima della resa definitiva. Atto di pura frustrazione, senza alcuna utilità politica o militare.
Non si fregiano di azioni migliori i militanti borbonici, che si lasciano andare ad ogni sorta di rappresaglia, promettendo addirittura la libertà agli assediati, per poi trucidarli mentre erano ancora convinti di poter salpare indenni verso la Francia. I tribunali cominciano una rapida stagione di condanne a morte, per chi aveva appoggiato la causa repubblicana. Luisa era tra questi.
Ma la Sanfelice aveva una carta in più da giocare: l’amore del popolo. Il suo gesto (rischiare la vita per amore, consegnando il suo salvacondotto all’amante) aveva goduto di una diffusa eco in città. E un popolo da sempre ritenuto istintivo e passionale non poteva trascurare le ragioni del cuore di Luisa, nel giudizio sul suo conto. Nondimeno Luisa viene trovata e imprigionata, in attesa del giudizio del tribunale.
La difesa, solitamente piuttosto accondiscendente alle ragioni dell’accusa, si impegna insolitamente per difendere la sua assistita. Il favore popolare di Luisa mette gli avvocati difensori nella condizione di dover lavorare al meglio. La tesi della difesa è la seguente: non si può imputare a qualcuno di rivelare i piani di una congiura contro il governo vigente.
Tesi ritenuta evidentemente insufficiente, se il 15 settembre fa visita a Luisa uno dei padri incaricati dell’estrema unzione. Gli avvocati allora si appellano ad un cavillo secondo il quale le condanne devono essere riferite al re, prima di essere messe in atto. E così si riesce ad ottenere alcuni giorni di respiro, rimandando di fatto la condanna a morte.
Dieci giorni dopo il re comunica la sua volontà: Luisa va decapitata. Mentre era in attesa dell’esecuzione capitale, Luisa viene illuminata da un’idea (o molto più probabilmente gliela suggerisce qualcuno con competenze giuridiche avanzate): secondo una legge dei sovrani Svevi, le donne incinte hanno la possibilità di rimandare la propria esecuzione fino a 40 giorni dopo il parto.
Dichiara così di essere incinta. Un primo esperto, il dottor Antonio Villari, conferma che la donna è al quarto mese di gravidanza, e ha salva la vita. Una seconda commissione, qualche settimana dopo, afferma di avere prove certe della gravidanza di Elisa. Ma tutti in città sapevano che questo non era vero. Lo sapevano anche Ferdinando IV e il padre di quei Baccher che erano stati trucidati dai repubblicani, senza ragioni apparenti.
Sono loro due i più acerrimi nemici di Luisa: il primo per una questione di principio, il secondo perchè la considerava responsabile della morte del figlio Gerardo. Il padre di Baccher si reca dal sovrano per chiedere giustizia, e Ferdinando accetta ben volentieri di sottoporre Luisa al parere di una terza commissione medica, questa volta però di Palermo.
A Palermo, dove nessuno aveva interesse a difendere Luisa, viene svelata la verità: Luisa non aspetta alcun bambino, e va quindi condannata a morte. Ma la buona stella della Sanfelice non smette ancora di brillare. Nasce l’erede al trono del re, e per tradizione il re doveva concedere tre grazie, a scelta della mamma. Tra queste indovinate il nome di chi viene fatto?
Ma stavolta non ci sono leggi che tengano. Ferdinando, esasperato dalla faccenda, infrange la tradizione, e ordina la condanna a morte per Elisa Sanfelice. Il primo settembre del 1800 Elisa è sul patibolo, in attesa che la scure del boia s’abbatta su di lei. E così è. La scure su di lei s’abbatte, ma le colpisce la spalla, mandandogliela in frantumi.
Il boia, infatti, s’era lasciato spaventare da un colpo di fucile fortuito partito dalla folla, di cui temeva particolarmente la reazione in difesa di Luisa. Per rimediare all’errore, il boia estrae di tasca un coltello da caccia, e recide la testa della Bonfelice in maniera se possibile ancora più cruenta di quanto la pena in realtà prevedesse.
Muore così il simbolo inconsapevole della repubblica e della passione napoletana. La cosa che urta maggiormente la sensibilità di chi conosce la vicenda, e si è immedesimato in Luisa, è che il Ferri ed il Cuoco vengono lasciati liberi di scegliere l’esilio. I due amanti di Luisa ebbero quindi salva la vita che a lei fu recisa su quel patibolo. A lei e all’unico dei suoi spasimanti a non essere ricambiato.
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