Quando Ippolita de Monti, moglie del Conte di Saponara Ugo Sanseverino, decise insieme a suo marito di acquistare nel XVI secolo una cappella all’interno della Chiesa dei Santi Severino e Sossio, a Napoli, lo fece probabilmente per riservare a sé e a suo marito una nobile dimora per l’eternità. Abituata ad amministrare denaro e a presenziare in società, sapeva che un investimento del genere significava anche guadagnare per la sua famiglia il rispetto e la riverenza dovute a chi può permettersi un simile lusso.
Una maledizione che si va ad aggiungere alla serie di lugubri accadimenti di cui, per secoli, è stato infestato lo splendido complesso religioso dei Santi Severino e Sossio. E quando diciamo per secoli, intendiamo molti secoli. Si tratta infatti di un monastero che, pur fondato nel decimo secolo, affonda le sue radici nel lontanissimo quinto secolo, ai tempi di San Benedetto da Norcia.
Al Santo fu donato infatti un ampio terreno dal console Anicio Equitio, padre di uno dei discepoli prediletti di San Benedetto da Norcia (San Mauro). In questo terreno si dice il Santo di Norcia piantò un platano, perchè riteneva quell’albero possedesse delle proprietà curative miracolose. Intorno a quel platano fu costruito cinque secoli dopo il primo chiostro del complesso benedettino dei Santi Severino e Sossio.
Si trattò in realtà di una fondazione d’emergenza, in quanto i benedettini che lo gestirono fuggirono dal monastero di Pizzofalcone a causa delle continue incursioni saracene. Fondarono il nuovo monastero sul territorio donato a San Benedetto nel V secolo, e vi portarono le spoglie di San Severino. Nel corso della ricerca consueta di materiale edile presso antichi ruderi, furono rinvenute le reliquie di San Sossio, cugino di San Gennaro.
L’incredibile scoperta avvenne nei presso del Castello di Miseno, e fu considerata tanto significativa da affiancare San Sossio a San Severino, nella denominazione del monastero. Una brusca battuta d’arresto sullo sviluppo del monastero arrivò intorno all’anno mille, quando fu distrutto durante gli scontri tra il principe di Capua Pandolfo IV e il duca di Napoli Sergio IV.
Nuova linfa vitale giunse in epoca rinascimentale, con l’avvio dei lavori per la sua ricostruzione. Non solo fu ripristinato il nucleo iniziale, ma nel corso dei secoli se ne aggiunsero molti altri. Risale al 1400 il Chiostro del Noviziato, al 1490 la Chiesa Inferiore, al 1500 il Chiostro di Marmo. Ed intorno ad ognuno di questi punti cardine, si sviluppavano una serie di edifici, alloggi, locali, destinati alla vita quotidiana.
Nonostante uno sviluppo artistico ed architettonico tanto effervescente, il complesso religioso fu funestato da continui incendi, tanto da far pensare ad azioni di sabotaggio tese all’annientamento di alcuni libri considerati “pericolosi”, perchè custodi silenziosi di conoscenze esoteriche non proprio in linea con la religione professata in quel monastero di benedettini. Un po’ ciò che avveniva ne Il Nome della Rosa, per intenderci.
E gli incendi non furono gli unici portatori di morte all’interno della Chiesa. Nel 1646 fece scalpore la morte di uno degli artisti più in voga del momento, Belisario Corenzio, cui furono affidati gli affreschi sulle volte. Precipitò da un’altissima impalcatura allestita per consentirgli di operare “al meglio”. Di quegli affreschi oggi non resta nulla.
La vicenda che ci apprestiamo a raccontarvi è di un secolo precedente alla morte di Belisario, epoca nella quale già operavano all’arricchimento architettonico del monastero le migliori maestranze, ed artisti di primo piano. L’acquisto di una cappella nella Chiesa dei Santi Severino e Sessio significava acquisire un enorme prestigio da parte dei Sanseverino, oltre che confermare il legame di nome tra il Santo e la casata.
Una casata caduta in disgrazia, che solo da pochi anni s’era riportata sulla cresta dell’onda. Alla fine del 400, infatti, i Sanseverino persero tutti i loro possedimenti a causa della sconfitta patita da Sigismondo Sanseverino, ad opera degli Aragona. Ugo Sanseverino, figlio di Sigismondo, nel 1497 giurò fedeltà a re Ferrante, e recuperò parte dei beni che erano stati confiscati alla sua famiglia.
La sua condotta (giurare fedeltà agli Aragona, gli stessi Aragona che costrinsero in miseria il padre) rivelava già in parte il carattere del personaggio, che si fregiava del titolo di Conte di Saponara. Un carattere diametralmente opposto a quello di sua moglie, la fiera Ippolita de Monti, donna conosciuta per il piglio con cui aveva gestito, prima del matrimonio, gli affari della sua famiglia.
Il recupero dei possedimenti da parte di Ugo attirò l’attenzione del fratello Girolamo, cui non sarebbe spettato nulla, per diritto ereditario, ammenochè Ugo non avesse avuto eredi. Ma di eredi ne aveva tre, i suoi tre figli poco meno che adolescenti: Jacopo, Sigismondo, e Ascanio. Tre nipoti, altrettanti ostacoli che si frapponevano tra Girolamo e le ricchezze di famiglia.
E così scattò il macabro piano dell’adorato zietto: invitò i tre nipoti, figli di Ugo ed Ippolita, nella propria dimora di Monte Albano, per partecipare ad una battuta di caccia. Durante un rinfresco, offrì loro del buon vino, che sua moglie Sancia Dentice aveva provveduto ad avvelenare. Le conseguenze furono atroci.
I tre bambini non morirono sul colpo. Le loro sofferenze si protrassero per ben quattro giorni, tanto che fecero in tempo a tornare a Saponara, nella casa di famiglia. Fu così che Ippolita vide spegnersi tra le sue mani, una dopo l’altra, la vita di ognuno dei suoi figli. I colpevoli furono individuati immediatamente, ma dopo anni di processo non si riuscì a condannarli.
Assenza di prove, si direbbe oggi. Ma in realtà decisivo fu anche l’atteggiamento di Ugo, il quale, per evitare la reputazione dei Sanseverino venisse intaccata da quell’episodio cruento, fece in modo da attutire i colpi della giustizia, ammortizzarli, ed infine, anestetizzarli. Una scelta che fece precipitare sua moglie Ippolita nel più profondo rancore.
Maledì suo marito e tutta la sua stirpe di ignavi assassini, ed ottenne immediatamente quella giustizia che i tribunali non tributarono ai suoi figli. Ugo morì di lì a breve, le terre dei Sanseverino furono colte da insanabili pestilenze, ed un palazzo di proprietà sito in Piazza del Gesù a Napoli andò perso.
L’ira di Ippolita non si fermò qui. Morto il marito, restava in vita l’assassino dei suoi figli. Fu capace di riaprire il processo ed insistere finché Girolamo Sanseverino non fu condannato ufficialmente per l’omicidio di Jacopo, Sigismondo, e Ascanio. Sfortuna volle che Girolamo aveva una protettrice altolocata, che lo fece scarcerare dopo pochi mesi.
Ippolita, a quel punto, affranta, pensò al destino ultraterreno dei suoi figli, e commissionò a Giovanni Merliano da Nola, allievo di Michelangelo, la costruzione di tre sepolcri nella cappella di famiglia. Uno per ognuno dei suoi figli morti. Li fece rappresentare seduti, in maniera che potessero sembrare ancora vivi. E gli sguardi dei tre adolescenti convergono verso un punto comune, il punto nel quale si sarebbe fatta seppellire lei, Ippolita, la Contessa di Saponara.
Dopo 3 giorni di agonia è morta oggi, mercoledì 8 maggio, Rita Granata. La 27enne…
Sui profili social del neomelodico siciliano, in carcere dallo scorso ottobre, è apparso un messaggio…
Raffaella Fico ha parlato della sua vita privata, ospite di Monica Setta nel programma Storie…
Tragedia lo scorso martedì sera a Napoli in via Girolamo Santacroce dove un uomo ha…
Dopo la scossa di terremoto avvenuta lo scorso martedì sera, tornano a tremare i Campi…
A seguito dell'avviso di allerta meteo della Protezione civile regionale della Campania per fenomeni meteorologici…