Il Carnevale a Napoli ha una tradizione antica che è andata a consolidarsi a partire soprattutto dal 1500, secolo dal quale provengono le prime testimonianze scritte. In realtà la festa ha origini molto più antiche, per quanto dibattute, a Napoli come nel resto d’Italia. Alcuni studiosi ritengono il Carnevale abbia origini pagane, per assonanza di caratteristiche con i riti dedicati a Bacco (Baccanali) e a Saturno (Saturnali).
D’altro canto c’è chi ritiene invece la derivazione del Carnevale sia strettamente collegata al calendario cristiano. Dall’antica etimologia della parola (Carne Levare) si arguisce il Carnevale potesse indicare sin da subito quel periodo che va dall’Epifania alla Quaresima, nel quale ci si concedeva eccessi di ogni tipo, prima di privarsene del tutto una volta entrati nel clima della preparazione alla Pasqua, fatto di digiuno e rinunce.
E difatti in molte regioni d’Italia è pratica diffusa far cominciare il Carnevale il 17 Gennaio, in corrispondenza della festività di Sant’Antonio Abate, per vederlo concludere il giorno del Martedì Grasso (variabile). In questo periodo si era soliti dar fondo alle riserve di cibo, per evitare andassero a male nel periodo di digiuno che sarebbe seguito, già a partire dal giorno dopo, il Mercoledì delle Ceneri.
Entrambe queste ipotesi (quella pagana e quella cristiana) tentano di spiegare in che circostanze è nata questa festa tradizionale, ma nonostante una gran mole di notizie storiche e artistiche testimonia l’abitudine alle maschere e ai bagordi in diverse epoche e contesti geografici, mancano del tutto documenti in grado di dare una risposta definitiva sulle origini della festa.
Ciò che invece è testimoniato è il Carnevale a Napoli al tempo degli Aragonesi. Una descrizione dettagliata di quanto accadeva nella seconda metà del 1400 proviene da un libro del Marchese Giovan Battista del Tufo: “Ritratto o modello delle grandezze, delle letizie e meraviglie della nobilissima città di Napoli”.
Inizialmente la festa del Carnevale a Napoli era appannaggio esclusivo della nobiltà. Per il sollazzo di marchesi e marchese, duchi e duchesse, dame e cavalieri, principi e principesse, la Corte Aragonese organizzava ricevimenti nei quali si poteva scegliere se partecipare a tornei, balli in maschera, battute di caccia, giochi a cavallo, o semplicemente a sontuosi banchetti.
Dal 1500 in poi il Carnevale scivolò lentamente dai salotti nobiliari alle strade del popolo, grazie agli allestimenti delle Corporazioni di Arti e Mestieri, sovvenzionati dall’aristocrazia. I napoletani meno abbienti invadevano gioiosamente le strade e le piazze della città, in special modo Via Toledo e Largo del Palazzo, con maschere e costumi, intonando canzoni licenziose e inscenando divertenti parodie.
Il 1656 fu un anno da ricordare, perchè comparvero i primi cortei di carri della cuccagna. Sfilarono carrozzoni lignei che, oltre ad ospitare rappresentazioni comiche, venivano addobbati con ogni tipo di genere alimentare. Lo spasso dei nobili era garantito, nel vedere il popolo napoletano, affamato, fiondarsi sui carri per accaparrarsi il cibo. Completavano il corteo alcune maschere che seguivano i carri declamando versi e canzoni dialettali inneggianti ai diversi mestieri.
Col tempo le risse che si creavano intorno ai carri della cuccagna costrinsero gli organizzatori ad una regolamentazione. Nel 1746 Carlo di Borbone dispose che i carri non sfilassero più per le strade di Napoli, ma venissero allestiti all’interno di un territorio circoscritto, meglio presidiabile dalle forze armate. Il luogo scelto fu Largo del Palazzo, l’attuale Piazza Plebiscito.
Progressivamente i carri della cuccagna furono sostituiti da strutture in legno, sviluppate in altezza, ideate e realizzate da architetti in maniera tale che potessero non solo sorreggere una quantità abnorme di generi alimentari (tra cui animali vivi), ma che quei cibi fossero parte integrante essi stessi della struttura.
Il segnale convenuto per il saccheggio era un colpo di cannone da Castelnuovo. Nel giro di qualche minuto, di quell’abbondanza issata sulle cuccagne non restava che il ricordo. Il popolo vi si avventava come uno sciame di locuste sull’erba, tra spintoni, urla, risse, calci, pugni, e a volte anche pugnalate, per accaparrarsi il maialino o il caciocavallo di turno.
La cuccagna del 1764 ebbe un risvolto tragico di ampia portata. A causa di una carestia perdurante, il popolo non riuscì a mantenere la compostezza richiesta prima del colpo del cannone, e pur di arrivare al cibo, assalì le guardie poste a presidio delle cuccagne. Dovettero intervenire i gendarmi a cavallo, affogando nel sangue la fame del popolo.
Gli eventi del 1764 persuasero il re che era il caso di dimenticare quest’usanza. Nel 1773 fu ripresa, ma lontano dalla reggia. Nel 1778 si tornò a considerare ingestibile la situazione, visto che delle quattro cuccagne organizzate tra il 17 gennaio ed il martedì grasso, tre si conclusero nel peggiore dei modi, col popolo che continuamente infrangeva le regole, spinto dalla fame. Dal 1779 la cuccagna non fu più organizzata.
Ma la festa del Carnevale, ovviamente, proseguì. Con molte delle tradizioni utilizzate fino a quegli anni convulsi, e con ulteriori innovazioni. Il Carnevale continuò ad essere annunciato attraverso il suono delle tofe (conchiglioni giganti dal suono cupo). Era il segnale che “scatenava l’Inferno”. Si riversavano per le strade orde di napoletani in vena di baldoria, tra nuvole di coriandoli, carte colorate, e alla peggio uova inzuppate nella farina.
Molti si accompagnavano con strumenti che quella baldoria la centuplicavano. Lo scetavaiasse, un violino sui generis in grado di produrre suoni talmente striduli da risvegliare le Vaiasse che dormono profondamente dopo il lavoro. Oputipù, che produce un suono simile al nome che porta. Il triccaballacche, storico strumento in grado di generare rumori assordanti.
Col tempo l’importanza rivestita dal Carnevale per la città di Napoli è andata scemando. Gli ultimi canti del cigno, a fine ‘800, con la “cavalcata degli struzzi”. I carri allegorici allestiti in maniera estremamente realistica (esistono foto del carro che raffigurava una gigantesca sirena con tutta la mercanzia in bella mostra).
La tradizione del fantoccio di Carnevale, grasso e ricolmo di cibi e salsicce, cui seguiva un corteo di prefiche che ne piangevano l’imminente fine, decretata per unanimo parere scientifico dei tre migliori medici della città, eletti dai tre quartieri allora più famosi: il Porto, il Pendino, il Mercato.
Oggi il carnevale è una lettera minuscola, rispetto ai fasti di un tempo. Una festa nella quale resistono alcune tradizioni di stampo rionale, e che in Campania raggiunge picchi di successo lontano dalla nostra città. Cosa permane, allora, di tutto questo bagaglio irripetibile di tradizioni popolari e nobiliari?
Le chiacchiere, il dolce tipico che tipico non è (essendo diffuso in tutta Italia). Bisogna ammettere che la delicatezza della preparazione napoletana, effettivamente, ha pochi eguali. Il sanguinaccio, tradizionale crema di cioccolato con l’ingrediente “segreto” del sangue di maiale, oggi di quel sangue conserva solo il nome, visto che per ragioni igieniche, ne è stato vietato l’utilizzo.
Le maschere: che carnevale è, se non si concede ai bambini quella gioia di indossare per un giorno i panni dei propri eroi o delle proprie eroine? Vero è che a Napoli le maschere spesso vengono confezionate in casa, e i bimbi vengono vestiti e posizionati in maniera tale da riprodurre scenette che fanno ridere per giorni (recente, quella del Papa con le bodyguards).
Gli scherzi di Carnevale. Questi proprio non possono mancare in ogni Carnevale che si rispetti. Immaginatevi se a Napoli non si trova il modo di magnificare questa tradizione, grazie alla fantasia inesauribile del nostro popolo, e alla naturale predisposizione all’indisponenza dei nostri scugnizzi.
Sempre meno fortunati napoletani possono dire di aver visto almeno una volta nella vita, sfilare per le strade di Napoli, la Vecchia ‘o Carnevale. Si tratta di una persona che indossa i panni di Pulcinella nell’atto di cavalcare una vecchia che lo sostiene per le gambe. Vecchia solo di viso, perchè il resto del corpo è più che avvenente.
Fuori da Napoli abbiamo esempi di tradizioni illustri a Palma Campania, a Sorrento, a Montemarano (Avellino), e a Benevento. A Palma il Carnevale viene festeggiato con tre giorni di quadriglie ininterrotte, alla fine dei quali viene decretato un vincitore. A Sorrento partivano da due punti opposti due carri raffiguranti il Carnevale grasso e la Quaresima magra. Si incontravano a mezzanotte, al cospetto della Morte.
A Montemarano si può assistere ancora oggi alla tarantella montemaranese. Una vera e propria gara di ballo, all’insegna della resistenza, sul ritmo di una tarantella che ogni minuto acquista maggiore velocità. Il dolcetto o scherzetto a Benevento si dice Vecchia cu Sasicchio, una tradizione per cui i bimbi bussano alle porte dei compaesani, che fanno loro dono di dolci e salsicce.
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