“Non si possono fare percentuali di colpa, non si possono quantificare le responsabilità per una fine cosi’ tragica, cosi’ assurda, inaccettabile“. Giuseppe Orlandi è il padre di Mattia, morto a 15 anni nella calca della discoteca Lanterna azzurra nella notte tra il 7 e l’8 novembre 2018, insieme ad altri quattro giovanissimi e ad una mamma di 39 anni. “La Procura di Ancona e i carabinieri hanno lavorato bene” dice all’ANSA a proposito della richiesta di giudizio immediato per i sei componenti della banda dello spray.
Ma secondo Giuseppe non sono stati loro, dei “balordi“, l’unica causa della morte del figlio e degli altri: nell’inchiesta ci sono anche altri 17 indagati e la Procura sta conducendo accertamenti sullo stato dei luoghi, sulle misure di sicurezza, sulla regolarità di controlli e autorizzazioni. “È ovvio quei sei hanno fatto cose orribili“, spiega, ma è “evidente che quella discoteca non era in regola, era un deposito agricolo. Come si può pensare di trasformarlo in un locale di ritrovo? Non aveva neppure la concessione edilizia…. E poi tutte le mancanze nel gestire una situazione di emergenza“.
Mattia viveva con la famiglia a Frontone (Pesaro Urbino), era figlio unico, studente dell’istituto tecnico di Fabriano, giocatore della Asd Junior Pergolese e poi con il Sassoferrato, grande appassionato di calcio e tifoso della Sampdoria: al suo funerale sulla bara bianca c’era la maglia del suo idolo Quagliarella. “Come ce la siamo cavata in quest’anno? – riflette amaro il padre – E chi dice che ce la siamo cavata? È un dolore troppo grosso, enorme. Eravamo una famiglia felice, non ci mancava niente, poi è crollato tutto. Rabbia? No, solo dolore, sconforto. La mancanza fisica e’ fortissima“, ma anche il senso di “ingiustizia” perchè Mattia non ha potuto continuare a studiare, a giocare a calcio, a realizzare i suoi sogni. La giustizia farà il suo corso, ma Giuseppe spera che “chi ha responsabilità provi rimorso, ne sia schiacciato, perchè non si può morire così“.
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