I parallelismi che fotografano una parte della società napoletana

Napoli è stata teatro di alcuni episodi di cronaca nera diventati protagonisti della stampa anche a livello nazionale. Vicende con al centro diverse questioni, da quella relativa alle baby gang, a quella che riguarda il disagio giovanile, fino a quella che concerne lo sballo del sabato sera. I fatti, oltre ad aver raccontato gli avvenimenti in se, hanno mostrato il forte degrado sociale di una parte della società napoletana. Un problema che ha investito più strati del tessuto sociale partenopeo il quale non ha risparmiato nessuna classe.

Una situazione vecchia di almeno 30 anni le cui problematiche, invece di risolversi o ridursi, si sono addirittura ingigantite e complicate. Ricordo come se fosse ieri quanto la società napoletana fosse divisa. Ricordo benissimo quanto molti dei miei amici della Torretta e dei Quartieri Spagnoli, provenienti da famiglie meno abbienti e caratterizzate da stati familiari difficili, fossero “diversi” rispetto a quelli nati in contesti agiati e residenti a ChiaiaPosillipo.

La differenza era lampante al liceo perché i primi difficilmente, dopo le scuole medie, continuavano il percorso scolastico alle superiori. Tuttavia, se chi nasceva in quartieri popolari aveva maggiori possibilità di rovinarsi la vita a causa di scelte sbagliate fatte indipendentemente dalla propria socializzazione, chi invece viveva in zone residenziali più vivibili, manifestava tutta la propria frustrazione attraverso comportamenti violenti.

In pratica il “guappetiello” della Torretta e dei Quartieri era tale perché abituato, perché per lui era normale avere determinati atteggiamenti. Eppure con molti di loro, di cui alcuni non hanno fatto una bella fine, ho condiviso molto, anche in base a precisi valori ritenuti da me e da loro importanti e ad oggi, tra noi, vi è ancora una sana e bella amicizia.

Invece il “bulletto” di ChiaiaPosillipo diventava violento per scelta. Perché aveva i soldi facili (non certo perché faceva il palo ad una piazza di spaccio) o perché magari i genitori erano separati e all’età di 50 anni continuavano ad andare ai “Baretti” per ubriacarsi e rimorchiare qualche 20enne. Ecco, con molti di questi ho legato poco anche se non ho mai avuto particolari problemi personali, anche se con il tempo e la maturità in tanti di questi ragazzi c’è stato un forte cambiamento.

Ed ora veniamo alle cronache più attuali. Tutta questa riflessione è scaturita dall’assistere ad alcuni di quegli episodi ai quali ho accennato all’inizio dell’articolo. Il caso di Arturo e le baby gang che ha messo a confronto la madre del primo con quella di “O Nano“, uno dei suoi presunti aggressori. La madre di Arturo è un’insegnante, fa parte di quel ceto che a Napoli non solo non esiste più ma è del tutto ininfluente e passivo rispetto alle dinamiche sociali della città: la borghesia.

La seconda, invece, vive in un basso, ha evidenti difficoltà ad esprimersi in italiano e sbarca il lunario ogni giorno per mandare avanti la famiglia. Cosa hanno in comune le due donne? Il destino infausto dei figli e l’abisso che separa i loro mondi. Le due famiglie vivono a pochi passi l’una dall’altra tuttavia sembrano provenire da due universi opposti e distinti.

E questa storia come si collega a quella del povero Nicola, il 20enne morto a Positano dopo una serata trascorsa in una famosa discoteca di Positano? Il collegamento lo si può individuare in una sola parola: disagio. La triste vicenda di Nicola ha aperto un mondo sul disagio sociale che coinvolge anche le famiglie ricche e benestanti di Napoli.

Questo drammatico episodio ha tirato fuori tutta la difficoltà che molti genitori hanno nel riuscire a star dietro ai propri figli. Questa storia ha dimostrato quanto l’accontentare sempre e comunque i giovani possa diventare un problema piuttosto che una risorsa. Così, sono emerse le figure di padri e madri sconfitti, delusi e divorati dal dolore. Ora, lo sballo è sempre esistito. Il povero Nicola non sarà l’ultimo 20enne che assumerà droghe o alcol per divertirsi. Ed è anche falso l’assioma che dietro una serata brava debba esserci per forza una problematica.

Come del resto la famiglia di “O Nano” non sarà l’ultima a far parte di questo contesto sociale fatto di violenza in cui le istituzioni rappresentano la parte peggiore di tutta la faccenda. Istituzioni che per anni hanno completamente dimenticato queste persone e i quartieri in cui esse abitano. Allora cosa sta accadendo a Napoli e in altre città d’Italia? Che il “povero” odia il ricco, ne detesta lo status, gli fa rabbia perché ha quello che lui non può avere ma lo deride perché non potrà mai essere “guappo”. E il “ricco” che fa? Si atteggia come il “povero”, diventa bullo per non apparire fuori luogo. Oppure lo emargina perché per lui si tratta di uno dei soliti “cafoni” che hanno “invaso” la parte “buona e bella” della città.

Inoltre, emergono anche le incapacità delle famiglie di risolvere specifiche questioni. La madre di “O Nano” non è riuscita ad evitare che il figlio finisse in galera. I tanti genitori, come quelli di Nicola, non riusciranno ad evitare che i propri ragazzi si sballino fino alla morte nei locali. E se le responsabilità sono sempre individuali, soprattutto se causate da particolari scelte che un essere umano compie nella propria vita, ecco che ai secondi, intesi come blocco sociale, io attribuisco maggiori responsabilità.

Chi se non architetti, medici, dottori, avvocati, imprenditori, magistrati, politici, professori e qualsiasi altro grande professionista può dare un contributo vero e attivo per tentare di risolvere questa tragedia sociale? In quante di queste famiglie si parla ancora tra genitori e figli? In quante, nonostante le possibilità e gli strumenti a disposizione, si commentano i fatti del giorno invece di stare attaccati ad un cellulare? In quante si riesce ancora a stare seduti a tavola per una semplice chiacchierata invece di perdersi davanti ad un drink?

Ecco, io credo che gli esponenti di questa specie di borghesia si siano arroccati e chiusi in se stessi, incapaci di fornire quella spinta propulsiva utile per tentare di cambiare questa città. Un ceto politicamente morto la cui immobilità è evidente in due esempi che appartengono a zone diverse di Napoli ma che condividono la stessa sostanza:

“BARETTI” DI CHIAIA-  Non solo i gestori non sono in grado di far funzionare la propria attività commerciale rispetto alle esigenze dei residenti (salvando la pace di qualcuno) ma vi è anche una palese inadeguatezza nel cercare di assumere una linea politica comune, tra tutti i “Baretti“, per fare in modo che le cose vadano per il meglio.

MERCATINO DI SANT’ANNA DI PALAZZO (QUARTIERI SPAGNOLI)- Nessun commerciante (o quasi) ha mai pensato di assumersi la responsabilità di dar vita ad un comitato civico, che ad esempio, possa far pressione sul comune affinché venga utilizzata un’area destinata ad un mercatino e che è invece abbandonata da sempre. Ora in questo spazio, diventato una discarica a cielo aperto, ci sono soltanto degrado e abbandono.

Quali sono gli elementi che imperano e sguazzano in questo contesto? L’inciviltà, la diseducazione, la perdita dei valori e del rispetto. In una società dove la mobilità si è fermata e il solco, il confine, tra chi ha e chi non ha è diventato enorme, c’è il rischio che la frattura sia diventata troppo grande per essere sanata. Se dovesse realizzarsi questa funesta eventualità, per la città sarà una grave perdita e il fatto più assurdo che in molti sottovalutano, è che il problema è di portata nazionale.

redazione

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