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Ciccio Cappuccio, il camorrista che sottomise Napoli

Nel giorno dei suoi funerali si riversò per le strade percorse dal corteo funebre una moltitudine di brutti ceffi che nessuno aveva mai visto in città. Volti terribili, corpi abnormi e massicci, andature animalesche, tutti resi ancor più truci dal dolore che li stava rodendo dall’interno: quel senso di impotenza nei confronti della Signora con la falce, che s’era invaghita dell’uomo sbagliato, Ciccio Cappuccio, il loro capo, il loro leader, il punto di riferimento della Camorra di fine ‘800.

In migliaia, un vero e proprio esercito, compiangevano la morte di Ciccio Cappuccio, uno dei capi Camorra più amati in vita, perchè delle vite e delle faccende dei napoletani si prendeva cura lui. Così si spiegavano quelle esagerate forme devozionali che portarono quei migliaia (in tanti erano brava gente) a seguire 6 cavalli neri e le oltre 10 carrozze che portavano i loro nobili proprietari a rendere i dovuti omaggi a ‘o signurino.

‘O signurino, un soprannome guadagnato non certo agli albori della sua carriera, quando si fece notare per tutt’altre doti. Ma la predestinazione era già nel suo cognome. I Cappuccio furono padroni del malaffare napoletano dal 1750 circa, quando Leopoldo Cappuccio (‘o mastriano) prese in mano le redini della città. Vent’anni più tardi gli effetti furono evidenti: tutti i bordelli di Napoli furono spostati per suo volere all’Imbrecciata, nel quartiere di residenza del boss. Nessuno osò mai protestare, finché ‘O Mastriano rimase in vita.

A quei tempi Francesco Cappuccio non era ancora nato. Nacque nel 1842 circa, da Antonio Cappuccio, proprietario di una taverna. Quando era poco più che un adolescente, volle facilitare l’ingresso di Garibaldi a Napoli abbattendo il muro che era stato eretto intorno al quartiere a luci rosse voluto dal suo avo. Le autorità lo fecero ricostruire.

E lui lo ributtò giù, anche dopo che Garibaldi fu entrato, grazie all’appoggio della camorra. Ai tempi la camorra era gestita da Tore ‘E Crescenzo, e fu ammessa in forze nella guardia cittadina per iniziativa di Liborio Romano, un politico che ingaggiò Tore a che la resa di Napoli alle truppe garibaldine avvenisse senza spargimenti di sangue.

Un decennio più tardi Ciccio Cappuccio sedeva sul trono di Tore. Ciò che lo portò ad occupare un posto di tale prestigio, in tempi così rapidi, è una storia tutta da raccontare. In una versione di questa storia, i dodici capi distretto della camorra, lo elessero, e lui si fece arrestare per aver modo di ringraziare i boss detenuti, e sentire di persona le loro richieste e le loro esigenze.

Un’altra versione parla di tutt’altro scenario. Finito in prigione per semplice resistenza a pubblico ufficiale, a Ciccio Cappuccio fu chiesto l’obolo, il pedaggio d’ingresso nel carcere. Un’iniziativa ideata dai camorristi per finanziare le iniziative in onore dei loro santi protettori (parliamo senza ironia dei loro santi protettori: rispondevano ai nomi di San Vincenzo della Sanità, la Madonna del Carmine, l’Addolorata, Sant’Anna, ecc.)

Era il cosiddetto “Tributo dell’Uoglio”, il tributo necessario ipoteticamente per pagare i lumini da accendere ai Santi Protettori. Quando Ciccio Cappuccio si vide circondato da venti camorristi venti che volevano i suoi soldi, sbottò, e pronunciando le parole “la Camorra sono io”, scatenò sui 20 malcapitati una furia disumana, riducendoli all’impotenza: dodici teste rotte, sette braccia fratturate.

L’impresa non passò inosservata né all’interno né all’esterno. Non appena i “senatori” del carcere si ripresero dal trattamento che riservò loro il giovane guappo di qualcosa, non pensarono minimamente a vendicarsi, ma gli si presentarono nuovamente innanzi, e ammettendo di essere rimasti colpiti e sorpresi da tanta baldanza, chiesero di essere guidati da lui. Chiesero che Ciccio Cappuccio mettesse le sue doti a disposizione della causa camorrista, questa volta occupando il posto più alto del vertice.

Una volta raggiunta la posizione che gli spettava, Ciccio Cappuccio prese ad amministrare la camorra con intelligenza e furbizia, contando sulla sua ben nota inclinazione alla violenza quando a suo parere ce n’era bisogno. La sua fama gli permise col tempo di fare a meno anche di azioni dimostrative o spedizioni punitive, perchè a detta di tutti bastava uno sguardo per far desistere anche i suoi più acerrimi detrattori da sinistri intenti a suo danno.

Con il potere politico aprì un canale privilegiato, condizionando pesantemente i voti per l’elezione dei parlamentari nella sua zona di competenza, in maniera da avere agganci a livello nazionale che potessero garantirgli appalti e affari di ampia portata economica. Dal canto loro, i politici lo trattavano coi guanti, non senza vere e proprie legittimazioni del suo potere.

Fece scalpore l’episodio riferito dal giornalista Ernesto Serao. La moglie del ministero degli interni fu vittima di un furto: gli fu sottratto un gioiello cui era particolarmente affezionata per motivi familiari. Il ministro si rivolse a Ciccio Cappuccio per riavere indietro il gioiello sottratto. Il futuro ministro della giustizia chiese un favore simile, ottenendo il maltolto dopo soli due giorni.

Con Ciccio Cappuccio, insomma, si poteva parlare. Sempre gentile e disponibile, a patto che si sapessero toccare le giuste corde. Un pianista a cui fu sottratto il pianoforte se lo vide recapitare a casa sua il giorno dopo aver chiesto il favore al boss. Ma quando, per sdebitarsi, il musicista gli regalò un orologio d’oro, Ciccio Cappuccio si rabbuiò in volto, e lo prese a schiaffi, ricordandogli che i favori lui li fa senza aver bisogno di nulla in cambio.

Morì nel 1982, come detto, tra la disperazione della sua gente. Giorni dopo la sua morte cominciarono a circolare “reliquie”: boccettine riempite col suo sangue, pezzi di ossa, lembi di pelle, prelevati probabilmente dagli addetti alle pratiche funerarie, per fare affari su uno dei boss della camorra più apprezzati dagli adepti. E non solo da loro. La mitizzazione del personaggio interessò persino la carta stampata.