A sentir parlare di posteggiatori, c’è chi porta istintivamente le mani in tasca alla ricerca di monetine. C’è un equivoco: quelli sono parcheggiatori. Le mani in tasca le porti lo stesso, ma lo fai con calma, senza fretta, dopo esserti goduto tutto quanto i posteggiatori avevano da dirti. In musica. A pusteggia è l’antica arte dei suonatori di strada (il loro nome infatti deriva da puosto, il posto di suolo pubblico che andavano ad occupare).
Oggi sopravvive soprattutto nell’attività di chi nostalgicamente la reinterpreta senza scopo di lucro, o grazie a musicisti che offrono i propri servigi sotto compenso. Ma precisamente, di cosa si tratta? La posteggia consisteva in un gruppo, più o meno nutrito, di musicisti, che si riunivano in un posto pubblico e cominciavano ad intonare vecchie e nuove canzoni napoletane. Uno cantava, e gli altri lo accompagnavano col mandolino, con la chitarra, con il violino, con il tamburello, o altro.
Obiettivo: rimanere liberi, esercitare l’arte della musica senza padroni, ricavarne un gruzzoletto con cui sopravvivere. Largo anticipo quindi sui tempi dell’emancipazione dei musicisti dai mecenati che li sostenevano. Il primo documento ufficiale nel quale compare il termine posteggia è un editto con cui Federico II di Svevia intendeva se non sbarazzarsi, almeno contenere il fenomeno dei posteggiatori, definiti molesti nel numero e nel ruolo.
In realtà, se ad ogni angolo di strada il Medioevo napoletano prevedeva posteggiatori, era anche perchè piacevano sia al popolo che ai regnanti. Al popolo per la semplice ragione che, accanto al repertorio più tradizionale, i posteggiatori elaboravano nuove rime e musiche per esprimere ironicamente, sotto forma di innocue canzoncine, quei malumori nei confronti della casta dominante che il popolo non poteva rivelare, pena la morte.
Ed erano apprezzati anche dalla stessa casta dominante (mutata in realtà più volte nel corso dei secoli, ma col comun denominatore del disinteresse per il benessere della gente comune), in quanto offrivano un piacevole diversivo alla noia, diversivo nobilitato da antenati illustri quali i menestrelli provenzali, per i quali si poteva anche scatenare un’asta per assicurarsene le prestazioni artistiche.
Col tempo la posteggia raggiunse le dimensioni di un vero e proprio fenomeno di costume. Il boom di popolarità fu raggiunto nel 1800, quando non c’era piazza, strada, vicolo, locale, taverna a Napoli che non ospitasse il suo bravo posteggiatori, o gruppo di posteggiatori. E Napoli ai tempi era una delle grandi capitali europee, non avendo nulla da invidiare a città come Londra e Parigi, da sempre all’avanguardia in ogni campo.
Le capacità gravitazionali che Napoli esercitava su letterati, artisti, uomini di cultura, autorità nel loro campo e in campo politico, portarono in città alcune delle più illustri figure dell’800. E questi personaggi, nel corso delle loro residenze di piacere nella città partenopea, poterono ascoltare tutto il repertorio di canzoni napoletane, dalle più allegre alle più malinconiche, tutte interpretate dalle voci e dagli arrangiamenti dei posteggiatori.
Un esempio su tutti. Posillipo, 1880, Villa Dorotea, residenza del Principe d’Antri. Ospite d’onore: Richard Wagner, il leggendario compositore tedesco. Quando un uomo notoriamente burbero come Wagner si ritrovò ad ascoltare la voce di Giovanni di Francesco, detto ‘O Zingariello, un posteggiatore famoso soprattutto nella seconda metà del’800, ne rimase rapito, e gli espresse il desiderio di portarlo con sé in Germania.
La leggenda vuole che Giovanni di Francesco rifiutasse questo invito, come quelli di altri nobili che gli offrivano fior di quattrini, in nome del suo smodato amore per Napoli, senza la quale a suo dire sarebbe morto. In realtà Giovanni seguì Wagner senza batter ciglio. Fu al suo servizio per due anni, in Germania, del compositore tedesco, finché, raccontò inizialmente Giovanni, si stancò di fargli da soprammobile.
Anche in questo caso, la realtà era un’altra. Giovanni di Francesco, detto ‘O Zingariello, era stato scoperto dal padrone di casa in atteggiamenti inequivocabili con la governante. Un carattere sanguigno come quello di Wagner non poteva tollerare certe cose accadessero sotto il suo tetto. La considerò una terribile mancanza di rispetto, e rispedì ‘O Zingariello tra le braccia dell’amata Napoli.
Altri casi di posteggiatori famosi. Don Antonio ‘O Cecato, al secolo Antonio Silvio, ebbe un grandissimo estimatore in Garibaldi. Pasquale ‘O Piattaro, al secolo Pasquale Jovino, fu chiamato addirittura in America, per cantare in occasione dei 400 anni dalla scoperta della stessa. Ma girò anche nelle corti di Svezia e persino nella residenza di Zar Nicola II, Russia.
Caruso stesso, incoronato da molti come il migliore tenore di tutti i tempi, cominciò a cantare prima nel coretto della parrocchia, poi nei locali, sfoggiando un repertorio di canzoni napoletane tradizionali. Fu notato da un baritono famoso mentre si esibiva in uno stabilimento balneare, e gli furono offerte lezioni di canto gratis. Di lì in poi è nata la sua stella.
Sui posteggiatori furono scritte addirittura canzoni a tema. Una di queste è Dduje Paravise. Due posteggiatori, giunti in paradiso, vengono accolti da San Pietro, che li lascia cantare e suonare con chitarra e mandolino. I Santi restano talmente estasiati che fanno loro la proposta di rimanere a deliziarli in eterno. I due artisti, però, sentono la nostalgia di Napoli, e concludono dicendo: “Nuje simmo ‘e nu paese bello e caro ca tutto tène e nun se fa lassá: Pusìlleco, Surriento, Marechiaro… ‘O Paraviso nuosto è chillu llá!”.
E che dire dell’immortale O Sole Mio? A scriverla furono Eduardo di Capua e suo padre Giacobbe. L’idea musicale fu di Eduardo, e gli venne mentre era addirittura in Russia, dove faceva il posteggiatore insieme a suo padre, che lo accompagnava al violino ed occasionalmente scriveva i versi delle sue canzoni. O Sole Mio fu una di queste. Il classico per eccellenza, opera di un duo di posteggiatori.
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