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Palazzo degli Orsini di Gravina, sede della Facoltà di Architettura della“Federico II”

La facoltà di Architettura dell’Università degli Studi Federico II di Napoli ha sede in uno dei palazzi cinquecenteschi più belli di Napoli: il Palazzo degli Orsini di Gravina. Questo palazzo sorge in via Monteoliveto 3, prosecuzione naturale di Via Sant’Anna dei Lombardi, la celebre strada fiancheggiata dal Palazzo Doria d’Angri, e dal Palazzo Carafa di Maddaloni. Una notevole concentrazione di genio creativo in ambito architettonico, in poche centinaia di metri.

Nonostante ospitare una facoltà tanto prestigiosa possa considerarsi un traguardo congruo all’importanza di un palazzo siffatto, in realtà, Palazzo Orsini di Gravina ha subito nel tempo una parabola decisamente decadente. La sua storia, che sin dagli albori era votata alla mondanità, all’aristocrazia, alle feste, al lusso, ma anche alla continua ricerca del bello artistico, pittorico, scultoreo, ed architettonico, si è conclusa tristemente dopo un’agonia durata decenni.

I lavori per la costruzione di questo palazzo cominciarono nel 1547 e si conclusero due anni più tardi. Se pensate alle dimensioni mastodontiche dell’edificio, al livello tecnologico delle maestranze di cinquecento anni fa, e ai tempi biblici delle nostre piccole e grandi opere, due anni è un tempo davvero record. Fu eretto per volontà del Duca di Gravina, Don Ferdinando Orsini.

Il ricco possidente aveva già cominciato anni prima a comprare fette di suolo in zona dal monastero di Santa Chiara e dal monastero di Monteoliveto. Il suo progetto per il palazzo di famiglia degli Orsini di Gravina era ben chiaro sin da subito. Non a caso l’esito finale fu di straordinario rigore geometrico, specialmente per la facciata principale che dà su via Monteoliveto.

Non si conosce con certezza il nome del progettista del palazzo. Si suppone possa trattarsi di un certo Gabriele d’Angelo, o d’Agnolo, ma il suo è solo il nome su un documento. Testimonianze ulteriori della sua attività di architetto, non ve ne sono. Eppure chi creò quella facciata doveva sapere bene il fatto suo.

Pietra vulcanica e marmi di travertino di Tivoli sono una scelta coraggiosa e piuttosto inconsueta nel cinquecento di quella zona di Napoli. Due ordini di finestre: le prime al piano terra, disposte simmetricamente rispetto all’ingresso, quattro da un lato e quattro dall’altro. Il secondo ordine ha una finestra in più, in corrispondenza dell’ingresso, ma per stile si differenzia nettamente.

Le finestre sono incorniciate da marmo bianco, sormontate ognuna da una nicchia tonda, sede di mezzobusti di figure romanizzanti. Dieci lesene che culminano in altrettanti capitelli corinzi hanno il compito di scandire visivamente l’intero ordine e collegarlo al cornicione superiore, dove il palazzo trova il suo punto più alto.

Internamente, invece, il Palazzo Orsini di Gravina si configura come un ampio cortile quadrato, circondato da portici, tra i quali si possono ancora ammirare le armi araldiche che gli Orsini hanno voluto caratterizzassero la propria storia: l’orso con la clessidra, lo scudo, la rosa, un puttino inginocchiato che mostra a chi lo guarda le iniziali di Ferdinando Orsini.

Nel 1549 il palazzo viene completato, e coincidenza vuole che nello stesso anno si spenga don Ferdinando, colui che tanto ha fatto per veder realizzato il sogno del palazzo di famiglia Orsini. A proseguire la sua opera, il figlio Antonio, nominato erede a patto che conservasse il palazzo di famiglia e facesse in modo da mantenerlo per generazioni .

Comincia un lungo periodo nel quale il Palazzo sembra non riuscire a trovar pace, sottoposto com’è a continui lavori di ammodernamento, arricchimento, abbellimento, e quant’altro venisse in mente ad ogni erede ne sia venuto in possesso nei 200 anni successivi alla morte del fondatore Ferdinando Orsini.

Nel 1589 vengono costruite balaustrate. Tra il 1651 e il 1658 vennero pagate varie maestranze per lavori di muratura. Poi fu la volta degli infissi, per tutte le porte del palazzo, ingressi compresi. Dal 1762 cominciarono lavori di restauro, a spese di Domenico Orsini, cardinale napoletano impiegato come ambasciatore presso lo Stato Pontificio.

Mario Gioffredo ideò il portale neoclassico e diresse i lavori insieme a quattro colleghi; furono dipinti affreschi sulle volte da Giuseppe Bonito e Francesco de Mura; decorata pittoricamente tutta l’abitazione, ad opera del Fischetti, richiestissimo pittore dall’onorario proibitivo; Antonio Joli si occupò di creare di volta in volta le scenografie più adatte ad ogni festa.

Non si capisce come queste feste potessero aver luogo in un palazzo che era in continuo stato di maquillage, perennemente occupato da carpentieri, marmorai, stuccatori, capomastri, pipernieri, falegnami, fabbri, maestranze d’ogni tipo, tutti a libro paga presso il fortunato proprietario di turno del Palazzo Orsini di Gravina.

E che dire dei servitori, un vero e proprio esercito di persone in alta livrea, equipaggiati di professionalità e buone maniere. E chi si occupava della stalla, degli animali, della carrozza? Altro personale, altre spese. Gestire un palazzo di quelle proporzioni significava spendere cifre esorbitanti in manodopera e manutenzione.

Inevitabilmente, nonostante la famiglia Orsini fosse notoriamente ricca, nel tempo si cominciarono ad accumulare debiti, da parte di chi viveva al di sopra delle righe. All’inizio dell’800 il palazzo fu requisito dai francesi, e nel 1830 messo all’asta per pagare lo stuolo di creditori che avevano concesso tempo e fiducia, mal ripagata, agli Orsini.

Il palazzo fu acquistato dal Conte di Camaldoli, Giulio Cesare Ricciardi, che lo ritrovò in condizioni di penoso abbandono. Avviò i primi lavori di restauro, e contestualmente cominciò a rimuovere quanto delle decorazioni ricordasse il nome degli Orsini, quando nel 1848 un episodio mandò tutto letteralmente in fumo.

Trecento liberali, nel tentativo di sfuggire ad un battaglione borbonico, si rifugiarono nel Palazzo del Conte di Camaldoli, contando sull’appoggio di suo figlio. Ma avendo accidentalmente ucciso il comandante dell’esercito, vennero braccati selvaggiamente. Per entrare nel palazzo i soldati non esitarono a sparare col cannone.

La folla cominciò a lanciare razzi incendiari all’interno del palazzo, da cui cominciò a divampare un incendio che bruciò per cinque lunghi giorni. Tutto quanto era all’interno del Palazzo andò perduto. I muri e le pareti, fortunatamente, no. Nel 1849 si procedette alla svolta “pubblica” del Palazzo Orsini, con uno sforzo finanziario di 200.000 ducati.

Tutto fu risistemato, in una veste più sobria, e nel 1859 il Palazzo divenne sede della Scuola degli ingegneri di ponti e strade, poi delle Regie Poste e Telegrafi, ed infine alla Facoltà di Architettura dell’Università degli Studi “Federico II”. Nel 1945 gli americani gettarono via una fontana seicentesca per ricavare un parcheggio all’interno del cortile.