Totò a Sanremo, il Principe della risata si dimise dalla giuria nel 1960

Era il 1959 quando Totò ricevette un invito da parte degli organizzatori del Festival di Sanremo per presiedere la giuria dell’evento canoro più famoso d’Italia. Il compito del Principe della risata sarebbe stato quello di selezionare le canzoni che avrebbero dovuto partecipare alla competizione musicale.

Antonio de Curtis accettò con entusiasmo nonostante era stato colpito da una malattia agi occhi che avrebbe potuto causargli la cecità. Totò rifiutò anche il gettone di presenza di 50mila lire che a quei tempi rappresentavano il valore di uno stipendio medio mensile.

Ma non tutto andò per il verso giusto e l’avventura del grande attore napoletano a Sanremo si arenò a causa di uno spiacevole episodio. Il Principe della risata entrò in polemica con gli altri membri della giuria. Il tema del contenzioso fu la canzone “Parole” che de Curtis avrebbe voluto fortemente in gara mentre gli altri membri furono contrari. Lo scontro tra il Presidente della commissione e i giurati, portò Totò a lasciare Sanremo perché “Io non faccio l’uomo di paglia“.

Le motivazioni di questo gesto furono espresse dall’attore in un articolo pubblicato sul settimanale Oggi del 24 dicembre del 1959:

Ho accettato una carica credendo che essa comportasse lo svolgimento di precise funzioni: nell’istante in cui mi sono accorto d’essere in errore, l’ho abbandonata. Tutto qui. La storia dei miei rapporti con la commissione incaricata di scegliere le venti canzoni per il prossimo Festival di Sanremo si potrebbe riassumere in queste semplici parole, e mi sarei guardato bene dall’aggiungerne altre, se l’interesse suscitato dal mio gesto non mi avesse obbligato a spiegare come sono andate realmente le cose. Lo faccio ora, soprattutto per dovere verso il pubblico, al quale mi sono sempre sentito strettamente legato. Ma tengo a precisare sin dall’inizio che non intendo entrare in polemica con nessuno. Desidero soltanto esporre il mio punto di vista.

Quando mi offrirono la presidenza della commissione esaminatrice, fui seriamente tentato di rifiutare. Conoscevo troppo bene l’ambiente del Festival per non sapere che rischiavo di andare incontro a discussioni, proteste, inimicizie o, in una parola, a un’infinità di grane. Alla fine, purtroppo, cedetti alle insistenza del mio carissimo amico Radaelli, e accettai. Sulle prime, non ebbi a pentirmene. I lavori della commissione si svolsero nella più perfetta regolarità. Le quattrocento e più canzoni concorrenti furono ascoltate da cima a fondo, talvolta ripetute, e per ciascuna di esse ebbe luogo una votazione. Nel corso di una serie di sedute massacranti, scartammo oltre trecento canzoni e ne riservammo novantanove per la seconda selezione. In quel periodo, non si verificarono divergenze fra noi: quasi tutte le decisioni furono prese all’unanimità.

Anche l’opinione pubblica si mostrò favorevole alla mia presenza a capo della commissione. Ricevetti numerose lettere e telefonate di approvazione, e rimasi profondamente colpito dal sondaggio statistico effettuato, a Milano, dal Corriere Lombardo: su cinquecento lettori interpellati, solo sei si dichiararono sfavorevoli a me. Tutti gli altri mi approvarono, un vero plebiscito. C’era di che sentirsi lusingati. Frattanto la commissione era entrata nella seconda fase dei lavori. Le novantanove canzoni rimaste in lizza furono, man mano, ridotte a sessanta, poi a quaranta, a trenta. A furia di ascoltarle, le avevamo imparate a memoria, e molti di noi si divertivano a cercare di indovinare, dallo stile, gli autori della musica e del testo. In ogni caso, l’esame procedeva con grande impegno e serietà da parte dell’intera commissione che comprendeva, oltre a un avvocato, un ingegnere, maestri di musica, uomini di teatro e giornalisti. Si giunse così alla votazione conclusiva. Erano rimaste in gara 27 canzoni e bisognava scegliere venti. Su otto (e precisamente: E’ vero, Noi, Notte mia, Perdoniamoci, Colpevole, Invoco te, Libero, Amore senza sole), fu raggiunta l’unanimità dei voti. Altre dodici passarono a maggioranza.

Fu durante quest’ultima votazione che scoppiò il cosiddetto conflitto fra me e gli altri membri della commissione. E fu allora che me ne andai. A questo punto vorrei sottolineare una cosa: esistono presidenti onorari e presidenti effettivi. Gli uni possono attribuire alla loro carica un valore puramente simbolico, gli altri no. Un presidente effettivo ha il dovere di dirigere i lavori dell’organizzazione di cui è a capo, e ciò significa che egli deve equilibrare i pareri discordi, mantenere una determinata linea, far pesare la propria autorità sulla bilancia delle decisioni. Altrimenti, a che serve nominarlo? Sono disposto a riconoscere che ho un carattere piuttosto battagliero. Ho imparato a lottare sin da ragazzo, e ho sempre lottato, nella mia professione come nella mia vita privata. Può darsi che il mio modo di fare sia un po’ autoritario, e può darsi anche che la mia educazione all’antica mi impedisca di avere quella elasticità che oggi è di moda. Comunque stiano le cose, però, io mi rifiuto di ammettere che il presidente di una commissione come quella del Festival possa essere considerato una figura decorativa o, peggio ancora, un fantoccio. E, soprattutto, non ammetto che la parte del fantoccio tocchi a me.

Durante i lavori della commissione, io non avevo mai fatto pesare il mio parere, perché non era stato necessario. A parte un paio di casi, in cui il duplice voto del quale disponevo nella mia qualità di presidente risolse il destino di canzoni che avevano ottenuto un uguale numero di voti favorevoli e contrari, i membri della commissione non subirono mai pressioni o ingerenze da parte mia. Mi riservavo di intervenire solo in caso che la mia azione fosse indispensabile, e questo caso si verificò all’ultimo scrutinio. lo ero del parere che Parole – una delle ventisette canzoni – dovesse figurare fra le prescelte e insistetti perché la commissione accettasse il mio giudizio (giudizio che, non bisogna dimenticarlo, era quello di un uomo che da 38 anni vive a diretto contatto col pubblico). La commissione non volle tener conto del mio parere e me lo dimostrò in maniera tale da farmi credere che il suo atteggiamento suonasse sfiducia a me, come presidente. Che altro potevo fare, se non abbandonare la seduta? lo non sostenevo – si noti – che Parole fosse più bella o più valida di altre canzoni. Ero solo convinto (e lo sono tuttora) che essa era, sotto ogni aspetto, degna di concorrere al Festival, e questa convinzione – mi sia consentito di ripeterlo – deriva da un’esperienza di cui non si poteva non tenere conto.

La musica della canzone è tale da far presa sul pubblico; le parole (e questo è un elemento importante in un periodo in cui la gente è stanca di sentir rimare cuore con amore) si staccano da quelle tradizionali, ormai trite. Insistendo perché la canzone venisse inclusa fra le prescelte, ritenevo di dare il mio contributo ai lavori della commissione, di giustificare la mia carica. (La quale, sia detto tra parentesi, non mi fruttava un soldo, perché, sin dal primo giorno, mi ero rifiutato di incassare il gettone di presenza di cinquantamila lire che mi spettava per ogni seduta). La commissione era ormai affaticata dal lavoro, che era stato veramente estenuante; alcuni dei suoi membri provenivano da ambienti estranei alla canzone: era il classico caso in cui il presidente doveva intervenire per evitare gli sbagli dell’ultima ora. Non si trattava di compiere un gesto dittatoriale (dopo tutto, Parole era uscita vittoriosa da ben tre, scrutini ed era entrata, per così dire, in semifinale ), ma soltanto di correggere quella che si annunciava come una decisione errata. Ero sicuro di fare soltanto il mio dovere, e quando mi accorsi che gli altri non la pensavano così, mi resi conto che la mia posizione diventava insostenibile. Non avevo alternative: perciò abbandonai la sala, scesi in strada e salii in macchina per ritornarmene a casa.

Il mio atto non fu dettato né da cattiva volontà né da inutili risentimenti: tant’è vero che, quando mi raggiunsero in macchina, pregandomi di rientrare, io acconsentii e tornai a riprendere il mio posto. La decisione di lasciare la presidenza divenne irrevocabile solo dopo che ebbi constatato che i membri della commissione, non contenti di aver respinto il mio suggerimento, pretendevano che io modificassi la mia opinione e mi sottomettessi alla loro, firmando il verbale conclusivo. Inutile aggiungere che io non sapevo chi fossero gli autori del testo e della musica di Parole. Ora che me ne hanno rivelati i nomi – Maresca e Falpo – posso dichiarare di non averli mai conosciuti personalmente e di non aver mai avuto a che fare con loro. Mi dicono che Maresca è un esordiente e che Falpo ha invece al suo attivo alcuni successi. Ma l’ho saputo soltanto dopo, e spero che il mio disinteresse nell’intera vicenda sia più che evidente. Auguro a Maresca e Falpo successo, dinanzi a quel giudice inappellabile che è il pubblico. Quanto a me, sono sinceramente dispiaciuto dell’incidente. Non dovevo accettare. Oltre a tutto, avevo molti impegni e molti guai con l’abbassamento della mia vista, che non è stato uno scherzo. Ogni lavoro, in questi ultimi mesi, è stato un sacrificio per me, ogni movimento mi è costato una lotta con i medici che continuavano a prescrivermi il più assoluto riposo. E la presidenza della commissione di Sanremo non me l’avevano certo prescritta i medici“.

redazione

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